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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni II
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

2^ fase

 
 

Paolo Fai  

 

La festa della matricola a Solarino
Tra storia e memoria

 

N.B.: L'articolo è corredato di note esplicative che, per motivi tecnici, si trovano alla fine di ciascuna delle due parti in cui si divide il testo. Chi volesse leggerle a piè di pagina, deve scaricare il file PDF posto alla fine della presente pagina.

 

                                                                                      
                                                                                                A Carmelo Burgio,
                                                                                              indimenticabile compagno di
                                                                                              goliardiche burle



Caviezel e papellu. Papellu e Caviezel. Puri suoni senza senso per chi è nato dopo gli anni ’70 del secolo scorso. Parole densamente significanti, invece, per chi, tra i ’60 e i ’70, attraversate fanciullezza e adolescenza, approdava, non ancora ventenne, agli studi universitari. Parole ricorrenti nel lessico famigliare degli studenti di tutte le classi sociali che, da Assoro a Gela, da Solarino a Francofonte, da Acate a Maletto, si iscrivevano nelle diverse Facoltà dell’Università di Catania. Parole non dissociabili, pena l’invalidità di "documento" di riconoscimento che il papello acquisiva solo se vergato su autentica carta Caviezel.
Ma che cos’era, la "carta Caviezel"? Era la carta da involto della leggendaria e, dal 31 dicembre 1995, ormai estinta Pasticceria Svizzera aperta nel 1914 dall’intraprendente Alessandro Caviezel, giovane proveniente dal Cantone dei Grigioni, patria di maestri pasticcieri, dalla cui succursale di via Etnea 32
(1), a pochi passi da Piazza Università, gli universitari "anziani" prelevavano, sotto gli sguardi compiaciuti e sornioni dei camerieri, mazzette di fogli stampigliati A. Caviezel & C. – Catania in caratteri giallorossi sormontati da Pasticceria Svizzera in caratteri blu, mentre tra il sostantivo e l’aggettivo troneggiava un rosso timbro ceralaccato al cui interno erano impresse le specialità della Casa.
Era abitudine goliardica, almeno fino agli anni Sessanta, quella di costringere, in modi più o meno gentili, il malcapitato neoiscritto (la "matricola") – facilmente "sgamato" dagli occhi esperti delle furbe ronde degli "anziani" per quell’aria da imbranato mal dissimulata da chi, nuovo del luogo, si aggirava, con fare incerto, per i corridoi del Palazzo Centrale, sede della Facoltà di Lettere e Filosofia e, allora, delle segreterie – a sottoscrivere un documento (il ‘papiro matricolare’ o, nel latino maccheronico in cui veniva stilato, magnum papirum), fornito dagli studenti più anziani – a Catania, solo su carta Caviezel – in grazia di pagamenti in onore di Bacco, Tabacco e Venere, l’antifrastica Trinità sacra alla goliardia, cioè con ricompense in alcolici, sigarette o favori femminili, o anche attraverso una severa cerimonia purificatrice, la lustratio, consistente nell’espiare le pene più svariate, come correre nudi per il chiostro del Palazzo Centrale dell’Università, lavare le palle ’o liotru, nella vicina Piazza Duomo o, appunto, do Liotru, dal nome con cui i catanesi chiamano, nel loro dialetto, l’elefante, simbolo della città etnea, che lì campeggia, sormontato da un obelisco.
Questo papellu
(2) fungeva da lasciapassare (3), un vero "habeas corpus", all’interno delle mura dell’Università. Non solo. Costituiva anche una sorta di difesa dagli assalti di altri goliardi più anziani, pronti a trovare cavilli speciosi per apportare correzioni al papiro stesso con codicilli, col solo scopo di estorcere sempre nuove godurie all’indifesa matricola. Il rito d’iniziazione alla vita della goliardia consisteva nella stesura del documento, la cui validità dipendeva, oltre che dalla carta Caviezel, dal numero dei fori di sigaretta (non meno di sette, di cui uno su una marca da bollo da una lira), dal numero e dall’ordine dei firmatari, tra cui doveva figurare almeno uno studente iscritto al secondo anno o, nel gergo goliardico catanese, fasòla, fagiolo. Il testo, in uno sgangherato latino folenghiano, era spesso corredato di disegni assai fantasiosi, ma generalmente allusivi alla sfera sessuale e ironici verso la nuova matricola.
Diffusa e celebrata un po’ dovunque, soprattutto, ovviamente, nelle città sedi di Università, la goliardia, diffusasi intorno al XII secolo con la liberalizzazione degli studi, a poco a poco perse d’importanza, fino a scomparire dai documenti, almeno a partire dal XV secolo. Rispunta, con un nuovo significato, nel XIX secolo e, con le stesse caratteristiche, nel 1900. Risale proprio alla fine del XIX secolo un corredo fondamentale dell’abbigliamento dello studente universitario, la feluca, il trecentesco berretto a punta, di cui gli studenti di Padova propongono l’adozione già nel 1888 e che diventerà il simbolo della goliardia italiana. Dopo la parentesi del fascismo, quando la goliardia ebbe vita grama perché la sua natura irriverente e irridente verso il potere non poteva essere tollerata da un regime amante dell’ordine, del suo ordine
(4), le Feriae matricularum riesplodono con tutta l’esuberanza di una gioventù che, dopo anni di disperato silenzio, riassapora il gusto della libertà e dell’allegria.
Gli anni d’oro della goliardia italiana sono i Cinquanta, mentre il declino può esser fissato sul finire degli anni Sessanta per la confluenza di diversi fattori, contrapposti e insieme complementari. Da una parte, sulla scia delle rivolte giovanili di Berkeley, California, di qualche anno prima, l’esplosione del Sessantotto che, contestando radicalmente da sinistra la borghesia e qualsiasi manifestazione ad essa riconducibile, seppellì l’università d’élite, con qualche centinaio d’iscritti, e con essa la goliardia, tacciata di atteggiamenti di destra, inducendo nello stesso tempo la classe politica nazionale al varo, affrettato (1969), ma a quel punto improcrastinabile, della riforma universitaria, che sancì la liberalizzazione degli accessi universitari e, con essa, l’accesso in massa dei rampolli della classe media, favorita dal boom demografico e dall’onda lunga del benessere diffuso tra fine anni Cinquanta e inizi anni Sessanta (gli anni del "miracolo economico"), nei santuari dell’alta cultura fino ad allora riservati a un’élite borghese. Dall’altra, e non per caso, il grande Moloch del capitalismo occidentale che, sfogati e sbolliti i furori rivoluzionari, reso più capillare il consumismo di massa sulle ceneri della fallita utopia della "tabula rasa", edificò la luccicante ‘cultura’ del divertimento organizzato e della "spettacolarizzazione" del tempo libero
(5).
Muore, in tal modo, uno degli ultimi residui dell’Europa preindustriale e della sua cultura folklorica. Inseribile, infatti, nel quadro fenomenologico della "festa", che, secondo definizione, è «momento della vita sociale di durata variabile, che interrompe la sequenza delle normali attività quotidiane, a esse opponendosi come periodo di particolare ‘effervescenza’», anche la goliardia si caratterizzava, «rispetto al resto del tempo, innanzi tutto per l’interruzione del tempo produttivo», e la sua "opposizione si manifesta[va] inoltre attraverso i momenti dell’eccesso, della trasgressione, dell’inversione» (E. Durkheim)
(6). Connotata dal carattere collettivo, insito nella natura di ogni festa, e pubblico, la "festa della matricola" si distingueva per la sua periodicità, ritmando così, come un’altra festa trasgressiva, il Carnevale, il tempo in una dialettica ciclica di tempo festivo e tempo normale.
Anche a Solarino, a partire dalla fine degli anni ’50
(7) e fino agli anni ’70 (ma già con minore slancio e partecipazione – gli anni memorabili furono, grosso modo, il decennio 1964-1974), la festa della matricola visse una lunga stagione di splendore e di grandezza (persino, o forse proprio, negli anni roventi della ‘contestazione generale’), animata da un manipolo di giovani estranei all’idea di voler ‘cambiare il mondo’. Insomma, fu un’esperienza ‘candida’, non ideologica, che vide accomunati giovani di diversa estrazione sociale e di opposte ‘divise’ politiche, di destra, di sinistra, di centro (8), ma che, in quei giorni di baldoria collettiva, mettendo da parte ogni riserva mentale, stipulata una tregua delle interminabili logomachie sui massimi problemi (dall’esistenza di Dio al "catenaccio" di Nereo Rocco, dal libero arbitrio al dualismo Mazzola-Rivera, etc.) attorno a cui abitualmente ci accapigliavamo fino a notte fonda, quando gli sbadigli ripetuti ci imponevano di ‘chiudere’ "’a chiazza", ci ritrovavamo insieme, vogliosi di soddisfare la smania di ‘fare’ qualcosa che fosse frutto della nostra ‘immaginazione’ (parola ‘culto’ di quegli anni), che assumesse, infine, la valenza di un ‘rito di passaggio’, attraverso cui emanciparci dalla potestà degli adulti. Intendiamoci. Non eravamo fuori della storia. Tra una carambola e l’altra al biliardo, tra una risata e l’altra per i geniali scherzi orditi dal mio amico Pippo Gozzo (ingegnere e, anche, degno compare dei Moschin, dei Celi, dei Tognazzi del monicelliano Amici miei) ai danni del malcapitato di turno, nel bar di don Peppino Cianci e, alla sua morte nel 1969, del figlio Totò, la davamo un’occhiata a «La Sicilia», dove leggevamo  della ‘sporca guerra’ degli yankees in Vietnam, della marcia per i diritti civili di Martin Luther King, di Che Guevara; vedevamo alla TV le manifestazioni degli studenti francesi e gli slogan da loro sbandierati e urlati, "vietato vietare" e "non è che un inizio" e "l’immaginazione al potere", vedevamo i carri armati sovietici a Piazza San Venceslao, a Praga, e ci sdegnavamo per la violenta occupazione patita dalla Cecoslovacchia e per il martirio, in nome della libertà conculcata, dello studente ventenne Jan Palach.
Ma noi, che vivevamo nella periferia del mondo, vivevamo lo "spirito del tempo" (trasgressione, anticonformismo) più nella dimensione ludica e del look (capelli lunghi, stivaletti a punta e coi tacchi alti, giubbotti di pelle e, per le ragazze, la minigonna, in una profusione di colori radicalmente alternativi al mondo grigio di una borghesia molto tradizionalista) che politica, intonando canzoni il cui ritmo e la cui ‘anima’ sentivamo solo ‘nostri’ e mille miglia lontani dai gusti dei nostri padri. Noi cantavamo i Beatles e i Rolling Stones, noi ‘sentivamo’ che ‘i tempi stavano cambiando’, come aveva profetizzato, già nel 1964, una celebre folk-song di Bob Dylan, The times they are a-changin’, ma non avevamo letto una pagina della ‘bibbia’ della contestazione, L’uomo a una dimensione, di Herbert Marcuse. Solo dopo avremmo saputo che il ’68 aveva sconquassato la società civile, rotto le vecchie suddivisioni di classe, trasformato una società statica, ancora più agricola che industriale, in una società mobile, complessa, multiforme. Anche noi, a modo nostro, eravamo dentro quegli eventi che poi sarebbero diventati storia, eravamo ‘soggetti della storia’, ma non lo sapevamo. E la rivoluzione? Con i Beatles, e la voce beffarda di John Lennon, di Revolution 1, (nel doppio ‘album bianco’ The Beatles, 1968), avvertivamo, con profetico disincanto, che durevole è la rivoluzione interiore ("You better free your mind instead", ‘è meglio invece che ti liberi la mente’), mentre "se te ne vai in giro con ritratti del Presidente Mao, non ce la farai con nessuno in nessun modo".  
Si può allora dire che, a parte le feste religiose come Natale, Pasqua e quella del Patrono san Paolo Apostolo la prima domenica d’agosto, la Matricola era la festa "laica" più attesa da giovani e meno giovani, più del Carnevale. So quel che dico, perché ne fui spettatore da studente liceale, protagonista da studente universitario. Né vale la possibile critica, di stampo tucidideo, secondo cui, mentre si sostiene «la superiorità della storiografia sul presente rispetto alla storiografia sul passato» (Canfora), la grandezza degli eventi narrati da chi vi prese parte viene generalmente esagerata, perché «gli uomini, nel momento in cui ci sono dentro, stimano ogni volta più grande di tutte la guerra che combattono, salvo poi, a guerra finita, a mitizzare daccapo gli eventi antichi» (Tucidide, Guerra del Peloponneso, I, 21, 2, trad. Canfora)
(9). Tramontata la matricola, nessuna festa pubblica veramente popolare ne ha preso il posto, mentre si è vertiginosamente dilatato il tempo libero da dedicare al divertimento privato. Né, d’altra parte, è ricevibile la possibile critica rivolta all’oggetto della ricostruzione storica, come frivolo e leggero. Ammesso che lo sia, resta incontestabile che la "goliardia", in quanto "prodotto" degli uomini, ha tutti i titoli per rientrare nella settoriale storia del costume e, quindi, nella braudeliana storia a "n" dimensioni che, «contro gli eccessi del soggettivismo storiografico […], consiste nell’estensione più ampia possibile della ricerca storica, che miri al recupero, alla rappresentazione, alla correlazione del maggior numero di aspetti e momenti della società e della cultura presa in considerazione dallo storico» (Musti) (10).
Lungi da me, comunque, l’ambizione di voler fare una ricostruzione storica, dettagliata e puntuale, di una manifestazione di storia locale: per quanto segmento minimo di una storia minore o perfino minuscola, o forse proprio per questo, vi si frappone un ostacolo insormontabile, costituito dalla scarsezza, se non dall’assenza, di fonti documentarie scritte (per fare un solo esempio, nell’archivio comunale non esiste una sola copia dei "manifesti" murali che tappezzavano il paese per annunciare alla cittadinanza l’inizio delle "goliardate". Infatti, nonostante alcune copie restassero in giacenza  nell’ufficio competente a concedere l’autorizzazione ad affiggerli, per motivi di spazio venivano gettate quasi subito al macero)
(11). Ho tuttavia sentito la necessità, urgente, di colmare un vuoto di conoscenza, soprattutto delle giovani generazioni, di chi cioè, vivendo nel presente e tutto ad esso riconducendo e riducendo, per naturale mancanza di prospettiva storica, tende a pensare il passato, anche prossimo, come un presente spostato all’indietro nel tempo. Insomma, a identificare il passato col presente, trasferendovi di peso usi, comportamenti, costumi propri del presente. Operazione errata, sul piano concettuale e metodologico, e priva di qualsiasi legittimità interpretativa in campo storiografico. Occorreva, dunque, fornire un documento scritto a chi, anagraficamente postumo rispetto a quegli eventi, potesse giudicarli favole, apprendendoli dal racconto orale di qualche "so- pravvissuto".
Ma non è solo questo il rischio cui vanno incontro "le imprese degli uomini". Come ben sapeva il vecchio Erodoto, esse sono esposte a un rischio ancor più grave: l’oblio, l’esser cancellate dalla memoria dei posteri. La storia, dunque, nasce con questo intento: "perché le imprese degli uomini non vadano dimenticate". Perché questo avvenga, occorre allora lasciare alle generazioni future una testimonianza durevole, affidata alla scrittura. Ovviamente, senza illuderci, con questo, che la scrittura sconfigga, sempre e comunque, l’oblio. Del resto, anche io, che pure ho deciso di riportare a galla momenti irripetibili del nostro vissuto giovanile, già risucchiati nel gorgo perfido del Tempo impietoso, ne sono stato malaccorto custode. Per molti di quegli anni estensore materiale dei testi, in latino maccheronico, dei "manifesti", con la collaborazione di altri, ma soprattutto di quel gran burlone del mio amico Pippo Gozzo, ne ho conservato solo un paio, preziosa reliquia di una più vasta raccolta, andata dispersa per mia colpevole incuria. Vivevo il presente e non lo pensavo (oh spensierata giovinezza! Solo dopo capiamo che spreco essa sia!)  come destinato a passare
(12).

 

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(1) La sede centrale era anch’essa in via Etnea, di fronte al centro commerciale La Rinascente, a pochi metri da Villa Bellini.
(2)
Vedi Vocabolario siciliano di Giorgio Piccitto, vol. III, N-Q, s.v. Papellu 1,5 pag. 365, col. I: "papiro, foglio scritto in latino maccheronico, spesso illustrato con disegni caricaturali o pornografici, che, fino a pochi anni fa, secondo la tradizione goliardica, gli anziani rilasciavano alle matricole all’inizio dell’anno accademico, dietro pagamento di un pedaggio di varia natura".
(3) Altrove, per esempio a Padova, considerata la capitale dei papiri, si segnalava il papiro di laurea, come testimoniò, circa vent’anni fa, una mostra storica allestita al palazzo della Regione dal titolo "Il papiro di laurea. Tra goliardia e professione. 1890/1970" (traggo l’informazione dalla bella recensione che vi dedicò Stefano Reggiani su «La Stampa» di sabato 16 marzo 1985, pag. 16).
(4)
Il fascismo, con la sua visione totalitaria, dando vita ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF), represse e soppresse di fatto l’Unione Goliardica Libertà, proibendo perfino, con una circolare dell’onorevole Turati dell’aprile 1938, l’uso della feluca e istituendo l’uso della paglietta universitaria, cappello italiano e, quindi, autarchico. La diffusa fascistizzazione dell’ambiente universitario, tuttavia, non impedì che proprio da quell’ambiente, in particolare quello patavino, agissero i fermenti di opposizione al nazifascismo. Il merito indiscusso dell’incitamento alla lotta contro gli oppressori in camicia nera va all’insigne latinista catanese, Concetto Marchesi, che, rettore dell’Ateneo padovano, il 1° dicembre del 1943, lanciò un "appello agli studenti" la cui parte finale vale la pena citare per intero, per la fierezza che anima quelle parole: "Studenti, mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla servitù e dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova e più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo" (cito dal bel libro di Ezio Franceschini, Concetto Marchesi – Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto, Editrice Antenore, Padova 1978, Appendice 3 "Appello agli studenti", pp. 176-177). Dimettendosi da rettore, perché l’Italia del Nord era nelle mani dei nazifascisti, animò tuttavia i giovani studenti alla resistenza alla barbarie oppressiva, dando luminoso esempio a tutto il mondo culturale italiano.
(5)
Fondamentale, a questo riguardo, il libro, veramente premonitore, di Guy Debord, La société du spectacle, Paris 1967, più volte tradotto in italiano. Segnalo qui la prima traduzione, La società dello spettacolo, De Donato, Bari 1968, e l’ultima, di Pasquale Stanziale, La società dello spettacolo, Massari editore, Bolsena (VT) 2002. Guy Debord fu l’ispiratore di un movimento di matrice marxista ma autonomo dai partiti e dalle forze politiche tradizionali, i cui componenti si chiamavano "situazionisti".
(6) Vedi Enciclopedia Europea, EE, Garzanti, Milano 1977, vol. IV, pag. 848.
(7)
Una fotografia, scattata durante la rappresentazione dell’Eredità dello zio buonanima di Antonino Russo-Giusti, contiene un elemento molto utile per fissare, con una buona approssimazione, la  cronologia della Matricola. Sul foglio di carta che copre il coperchio della botola in cui si calava il suggeritore, si legge XIIae Feriae Matricularum. Poiché quella commedia fu rappresentata nel 1969 (o nel 1970?), l’inizio va posto o nel 1958 o l’anno successivo.
(8)
Solarino, nel secondo dopoguerra, è stato un paese lungamente amministrato dalla Democrazia Cristiana, a rispecchiare la natura moderata dell’elettorato solarinese, con una consistente presenza della destra liberale (PLI) e di quella neofascista (MSI), almeno fino ai tempi di cui stiamo trattando. Assente il Partito repubblicano. La sinistra vi ha avuto una presenza marginale e quasi mai è diventata predominante. Un certo spazio si creò, a partire dagli anni ’70, il PSI, ma il PCI e la sinistra estrema hanno avuto sempre vita grama.
(9)
L. Canfora, Tucidide, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991, pp. 10-11.
(10) D. Musti, Società antica – Antologia di storici greci, Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 16.
(11)
Questa deprecabile prassi è ancora oggi vigente – con buona pace degli storici, professionisti o dilettanti che siano –, come ho appreso da una testimonianza resami da una fonte autorevole, il funzionario comunale, dott. Giuseppe Passalacqua, che qui ringrazio.
(12)
I documenti utilizzati, soprattutto fotografie, a sostegno della memoria mia personale, inevitabilmente parziale e selettiva, e degli amici interpellati che condivisero quella pluriennale esperienza che fu la Festa della Matricola, sono per lo più tratti dal mio archivio privato. Comunque, qui ringrazio quanti mi hanno dato consigli e suggerimenti, utili alla realizzazione di questo breve saggio, e particolarmente Benito Cassia e Ciccio Terranova. E, tra i tanti altri, oltre a quelli citati nel mio articolo, sento qui il dovere di ricordare almeno questi ‘compagni’ di baldoria: Giuseppe Sipala, Silvio Fichera, Nino Barbagallo (ingegnere chimico), Concetto Burgio, Nello Mangiafico (chimico), Paolo Mangiafico (farmacista), il compianto Paolo Del Sol Calafiore (1947-2008).

 

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In principio fu l’ingegnere Paolo Burgio (1921-1980). Non è possibile rievocare la Matricola a Solarino senza cominciare con lui, il grande anfitrione di quella manifestazione che, da Catania, dove verso la fine degli anni Cinquanta si era trasferito per lavoro, volle riprodurre nel suo paese natale. Bon vivant, elegante viveur, perfetto epicureo, incarnava al meglio lo spirito della goliardia in ogni gesto, in ogni atto della sua vita. Mai accigliato o supponente, sempre alla mano e generoso, "mitica" resta, in chi lo ha conosciuto, la sua disponibilità a dispensare sigarette, specialmente ai ragazzi squattrinati in crisi di astinenza, che a lui si rivolgevano certi di esserne esauditi, a lui che, fumatore incallito, ma, si direbbe, distaccato (spegneva le sigarette, che accendeva senza soluzione di continuità, poco dopo averne aspirata qualche boccata o dopo averla fatta consumare in un posacenere, tra una mano di ramino e l’altra al Circolo), tirava fuori, come un prestigiatore, dalle tasche di giacca, pantaloni e panciotto una quantità incredibile di pacchetti di sigarette. Dotato dalla natura dell’arte di saper vivere, ‘dissipatore’ delle sue energie vitali al punto da esaurirle troppo giovane (Paolo Burgio lasciò questa terra, poco più che cinquattottenne, nel febbraio del 1980) fu (e rimane) il "pontefice massimo" (13) per eccellenza, maestro insuperato della generazione successiva, che ne proseguì l’iniziativa.
Festa periodica, dicevamo, le Feriae Matricularum oscillavano tra la fine dell’anno (i giorni tra Natale e il 31 dicembre) e i giorni a ridosso dell’Epifania, quando c’era il pieno degli universitari, per la presenza anche di quelli che studiavano in sedi lontane
(14). Si stabilizzò, poi, in questo periodo e si articolava in diversi giorni.
I momenti principali erano la consegna delle chiavi della città da parte del sindaco al capo-delegazione degli universitari, come a sancire che, durante quei giorni, la "legge legale" veniva sospesa e sostituita dai princìpi della goliardia, trasgressivi della legalità ufficiale, ispirati al riso, alla satira e alla parodia, all’esaltazione del "mondo alla rovescia" con la connessa contestazione dei rapporti gerarchici. Dopo l’occupazione del Municipio e la consegna delle chiavi, il programma della festa prevedeva la partecipazione degli universitari alla Santa Messa per gli studenti defunti
(15), seguita dalla ben più tumultuosa Questua. I goliardi, infatti, radunatisi in Piazza Plebiscito, cominciavano a girovagare per le vie del paese, sottoponendo i passanti a richieste di denaro e ‘alleggerendo’ le botteghe di alimentari e le macellerie di quanto, nel pomeriggio, tornasse utile per la pantagruelica sasizzata o sasizziata (salsiccia, fettine di maiale e di vitella, frutta, birra e soprattutto vino, vino, vino). Il pomeriggio del primo giorno, dopo la ‘processione’ per le vie cittadine delle matricole "incatenate", in abbigliamento anomalo, con sottane femminili, orinali in testa, le facce truccate pesantemente come "belle di notte", in un corteo in cui non di rado compariva, ad aprire e a chiudere, qualche anziano (Carmelo Tondo [1942-2009], Ciccio Terranova) a dorso di un asino o di un mulo, ripetendo un rituale inaugurato da Paolo Burgio, in atteggiamento benedicente da Pontefice Massimo che augurava, urbi et orbi, magnum casinum, tornati in Piazza Plebiscito, si celebrava il processo alla fetentissima matricola, vera e propria parodia di processi reali, con giudice, cancelliere, testimoni, pubblica accusa, difensore. Le accuse più comuni riguardavano il non esser l’imputato andato a donne, non aver frequentato case di tolleranza ovvero, nel linguaggio spiccio del pubblico ministero, ‘casini’ o bordelli (quando c’erano, prima della legge Merlin del 1958, che li abolì), non bere alcolici, o berne in modica quantità, non fumare o fumare troppo poco. Tutto questo avveniva mentre boccali di vino venivano sorseggiati dalla ‘corte’ e dal reo. Alla fine, l’immancabile verdetto di condanna del processato ad una delle tante pene, più o meno strambe, escogitate dalla fantasia dei giudici, con l’immancabile seguito di cori scassati che "stonavano" un ampio repertorio di sboccate canzonacce, dalle Osterie alla celeberrima canzone dello Spazzacamino, la cui maliziosa allusività insieme con l’accattivante ritornello ne hanno fatto una specie di "manifesto" dello spirito goliardico (vedi Appendice).
Anche la partita di calcio tra matricole e fasòle opposte agli anziani era occasione di grande baldoria, condita sovente di zuffe tra i contendenti, perché gli anziani, di riffa o di raffa, pretendevano di vincere sempre contro le imberbi matricole, ma anche delle lamentele di chi abitava nelle case attorno alla piazza che non di rado vedevano i palloni impazziti mandare in frantumi i vetri delle finestre. Ma diremmo poco se tralasciassimo il tocco in più di comicità che all’evento conferiva la figura dell’arbitro, il compianto avvocato Gaetano Dimauro (1922-2004), personaggio spiritoso e capace di autoironia, che non disdegnava di offrirsi al riso degli astanti indossando, lui che era basso e grassottello, ampi mutandoni che, allacciati alle caviglie, ne accentuavano la rotondità.
Nel denso programma delle Feriae un rilievo particolare aveva ’a sasizzata o sasizziata, che aveva luogo nella parte della Piazza Plebiscito antistante alla farmacia Fichera. A presiedere, da gran cerimoniere, a tale operazione era l’indimenticabile Michele Aparo (1943-2018), che con particolare destrezza domava le fiamme che si sprigionavano da un’imponente catasta di fascine in precedenza ammonticchiate, fino a che la legna non fosse diventata un ampio lago di brace e di calda cenere in cui venivano gettati chili di salsiccia, avvolta nella "carta paglia", e altra carne, a fettine o a lacerti, mentre attorno tripudiava una folla di gente, studenti e gente comune, in trepidante attesa di addentare la calda e saporosa pietanza, innaffiata, in nomine Bacchi, da abbondanti libagioni di robusto vino rosso.
La sera del penultimo dei tre o, talvolta, quattro giorni di festa, un altro appuntamento molto atteso era il teatro. Nel contesto goliardico, ispirato a satira e parodia, non potevano essere rappresentate che commedie. E le esilaranti pièces teatrali che venivano messe in scena erano tratte dal repertorio teatrale siciliano della prima metà del Novecento (Martoglio, Russo-Giusti). Gli ‘attori’ erano per lo più gli stessi goliardi, ma non di rado si ricorreva a ragazzi delle superiori, a completare il "cast" che avrebbe portato sulla scena L’aria del Continente, L’eredità dello zio buonanima, Gatta ci cova, Fiat voluntas Dei, ’U cittadinu Nofriu. Anche la regia era ‘artigianale’, nel senso che non veniva affidata a gente del mestiere. Carmelo Calafiore, ’u rrizzu (1936-2005),  Pippo Gozzo, Cesare Galazzo si facevano registi sul campo, come gli stessi attori, che si gettavano allo sbaraglio con tutta l’improntitudine dei vent’anni. Fondamentale, poi, il ruolo del suggeritore, la cui abilità, spesso decisiva per la buona riuscita dello spettacolo, si dispiegava non solo nel porgere le battute agli spesso smemorati attori, ma anche nel difendersi dagli assalti dei topi che, come in un sabba scatenato, si rincorrevano nel fondo della buca dove il malcapitato di turno si calava e si celava al pubblico. Insuperato in quel ruolo fu il caro, compianto e rimpianto Carmelo Burgio (1947-2004), che la sorte malvagia ha troppo presto strappato al nostro affetto, cui successe il non meno bravo Pippo Gozzo.
Le prove, che generalmente avevano inizio a metà novembre, si svolgevano in sedi di fortuna, ma per lo più nella canonica della Chiesa Madre, il cui parroco, il buon don Gaetano Marchese (patri Marchisi), dal carattere scontrosamente timido, sottoponeva gli emissari degli studenti a sfibranti trattative prima di concederne l’uso. Per la costruzione delle quinte, che avrebbero fatto da fondali della scena teatrale, preziosa si rivelò la competenza acquisita da Fausto Farinella nella bottega di falegname del padre, don Carmelino, così come per la ‘pittura’ dei teloni Pippo Gozzo (ancora lui!) mise a disposizione la sua abilità manuale. Ognuno, però, dava il contributo che poteva. Come quello – divenuto memorabile per chi era presente – di Tullio Miano, che una volta, dal fondo della sala del Cine -Teatro ‘Diana’
(16) del "mitico" don Michele Gozzo, 1905-1986 (e della moglie, ’a zza Palida ’a rrizza, Paola Calafiore, 1908-1984), quando, passata ormai la mezzanotte di una defatigante giornata, si sudava ancora per sistemare le scene sul palcoscenico, come se avesse ravvisato una madornale irregolarità, se ne uscì col seguente suggerimento: "Spostate la quinta laterale destra di due centimetri". Facendosi mandare al diavolo da chi, pur stanco e assonnato, ancora sgobbava.
La mattina successiva, le prove generali per le ultime rifiniture e le penultime arrabbiature, perché c’era sempre qualcuno che sbagliava le battute o che entrava fuori tempo in scena. Infine, nel tardo pomeriggio ci si ritrovava al ‘Diana’, ognuno portando con sé gli abiti di scena, spesso vecchi e dismessi abiti dei padri e dei nonni tirati fuori dalla naftalina, ma talvolta, specialmente quelli femminili, appositamente confezionati dalle sarte locali. Nei camerini-bugigattoli cominciava l’operazione trucco sotto le esperte mani del siracusano signor Pistorio, gran simpaticone, dalla sublime sordità, che con cerone, biacca, creme varie, rimmel, borotalco, lacca e stoppa trasformava la fisionomia degli attori. Intanto, la tensione cresceva man mano che la sala andava gremendosi di spettatori, fino all’apertura del sipario (che talvolta s’inceppava, nonostante la perizia e la buona volontà di Paolo Gozzo, figlio di don Michele), quando bisognava mettere da parte ogni viltà e affrontare a viso aperto il pubblico. Che non disdegnava di tributare applausi scroscianti, mostrando di divertirsi davanti alle tirate di don Cola Duscio contro ’a carrapipara Milla Milord o alle molteplici malattie immaginarie del cavaliere Amore.
L’ultimo giorno era scandito da due eventi veramente ‘popolari’: la gim-kana automobilistica e il Gran Veglione danzante. La gim-kana si svolgeva a partire dal primo pomeriggio nella parte della piazza Plebiscito antistante alla Chiesa Madre. La partecipazione era aperta a tutti e, tra gli iscritti, si contavano anche concorrenti provenienti da paesi vicino come Floridia e Priolo. Gli equipaggi, formati da due persone per macchina (autista e navigatore), a bordo per lo più delle piccole e maneggevoli Cinquecento, dovevano destreggiarsi tra i birilli, che punteggiavano i bordi del tracciato del percorso stretto e tortuoso, e le prove di abilità, come infilare un ago, fare entrare dentro una bottiglia di latte una candela che pendeva da una corda attaccata ai fianchi del navigatore ecc., in una lotta nervosa contro il tempo. Vinceva l’equipaggio col percorso netto e con meno penalizzazioni. È superfluo aggiungere che una folla di ragazzi e adulti faceva da cornice a questa manifestazione di piazza, incoraggiando, allegramente tumultuosa e vociante, i propri beniamini. All’equipaggio vincitore andavano premi vari, tra cui una coppa, che sarebbe stata consegnata la sera, nel corso del Veglionissimo, il gran gala che chiudeva le Feriae matricularum.
Conclusa, all’imbrunire, la gim-kana, ci si precipitava al Cine-Teatro ‘Diana’ per dare gli ultimi ritocchi alla sala, che già in mattinata era stata sgombrata delle sedie e delle poltrone, affastellate sul palco in massima parte, mentre le restanti venivano addossate alle pareti tutt’attorno alla sala, preda ambita delle famiglie che, la sera, arrivavano tra le prime e che da quel privilegiato posto di osservazione potevano tenere sotto controllo le loro figlie e, insieme, abbandonarsi a commenti agrodolci (ma, ci giurerei, più agri che dolci), della serie ‘taglio e cucito’, nei confronti delle coppie danzanti. Rimosse sedie e poltrone, si procedeva a spazzare e lavare il pavimento, vera croce cui nessuno volontariamente si sottoponeva, al punto che spesso bisognava precettare delle matricole che coadiuvassero qualche anziano cireneo. Il pavimento, infatti, era sconnesso e bucherellato, tappezzato di un anno di chewing-gum che bisognava rimuovere a forza di spatola, se non si voleva che i ballerini diventassero belle statuine. Contemporaneamente, altri studenti ‘operai’ addobbavano la sala con festoni e stelle filanti appese da parete a parete. Nell’angolo di fronte all’ingresso venivano sistemati dei tavoli: era quello il buffet, luogo dei rinfreschi e dei dolcini, dei liquori e dello spumante. Qui i ragazzi sfoggiavano un vasto repertorio di galanterie, dal cui uso, più o meno abile e disinvolto, dipendeva lo sbocciare o l’appassire di amori improvvisi. Nel corso degli anni, diversi gruppi musicali si succedettero sul palco ad ‘allietare la serata’, secondo la formula ricorrente nei manifesti e negli inviti che venivano inviati alle famiglie. Una presenza quasi costante, tuttavia, fu quella del trio di Nino Lombardo, eccellente pianista catanese, alquanto noto per la sua partecipazione all’allora molto seguito programma radiofonico di varietà della sede regionale RAI di Catania, Il ficodindia (tra gli attori vi figurava anche l’allora giovane Turi Ferro), sulle cui carezzevoli e ruffiane melodie (ah, quelle note vellutate della magica errolgarneriana Misty, infinite volte richiesta ed eseguita) si spandevano languide confessioni ed effusioni d’amore.
Che la Festa della matricola non avesse alcuna valenza contestataria contro la cultura e i riti borghesi degli adulti, ne dava ampia prova il gran ballo finale. Sì, avevamo i capelli lunghi, ma solo un poco, gli stivaletti a punta, ma quella sera si tornava a indossare le regolamentari scarpe basse, i giubbotti di pelle o similpelle, ma quella sera a nessuno mai sarebbe passato per la testa di presentarsi in sala con vestiti ‘fuori ordinanza’. Quella era la serata del ritorno all’ordine borghese più tradizionale e, perciò, all’abito scuro con camicia bianca e cravatta scura, o, i più ‘sciccosi’, papillon. Insomma, borghesi fino al collo – è il caso di dire –, ci si allineava allo stile dei padri, in un ideale passaggio del testimone.
Pur essendo una festa ‘maschile’ e, diciamolo pure, maschilista, perché le studentesse universitarie, che c’erano, anche se poche, avevano un ruolo marginale, la Festa della matricola, in occasione del Veglionissimo, cedeva la primazia alle sacerdotesse di Venere, soddisfacendo così la formula con cui venivano dichiarate aperte le Feriae matricularum
(17). Per molte ragazze ancora adolescenti era quello il battesimo della ‘mondanità’, l’ingresso ufficiale nella società, la presentazione al pubblico dei potenziali pretendenti. Per questo, più che verso le ventenni e oltre, gli sguardi di noi ragazzi si appuntavano principalmente sulle sedicenni, come a svezzarle con gli occhi e a valutarne gli esiti futuri. Né esse si sottraevano a quell’inquisizione, anzi vi si assoggettavano con non celato compiacimento, sfruttando, come ognuna meglio sapeva, le già scaltrite arti della seduzione. E allora tutto concorreva a creare un’atmosfera frizzante e densa di erotiche promesse: gli abiti, lunghi o a tre quarti, attillati o fruscianti, di seta o di lamé; le acconciature, vaporose o a caschetto, a chignon o arricciate; i profumi che si spandevano intorno a tutte le cenerentole che sognavano una serata da principesse. Anche perché il momento culminante, il clou della serata era l’elezione di Miss Goliardia.
Non sempre bellezza ed eleganza, charme e classe convivevano, in dosi equilibrate, nella ragazza prescelta. Due diverse procedure, a memoria mia, venivano praticate per la scelta della Miss. Una, venale, consisteva nell’acquisto da parte dei presenti in sala di biglietti con i nomi delle ragazze sollecitate a candidarsi. Con questo sistema, vinceva la concorrente che vantava il maggior numero di biglietti col suo nome. Ma denaro e virtù quasi mai vanno d’accordo, per cui poteva succedere, e succedeva, che a vincere fosse una ragazza bella e charmante solo per il suo spasimante danaroso che, sborsando una forte somma di denaro, volesse ‘comprarsi’ le grazie della Miss. L’altra procedura, non venale e più ‘oggettiva’, si fondava sulla valutazione delle ‘qualità’ di tutte le ragazze presenti, affidata ad una commissione, scelta dai goliardi e presieduta da uno di essi. Ricchi premi e cotillons (altra formula rituale su manifesti murali e inviti) inondavano la Miss, che, raggiante di felicità, saliva sul palco a riceverli assieme agli applausi, ma anche a qualche immancabile fischio di disapprovazione. Dopo questa prolungata pausa, che consentiva anche agli orchestrali di rifiatare, si riprendeva con la musica e i balli fino almeno alle tre del mattino, quando nel salone, ormai quasi deserto, i pochi goliardi superstiti, sfatti dalla stanchezza, davano fondo agli ultimi guizzi di vitalità, facendo un primo sommario bilancio, anche economico, della manifestazione. Poi, alle prime luci dell’alba, si chiudeva, e ognuno prendeva la via di casa, lentamente, avido di vivere gli ultimi scampoli di una notte speciale cui sarebbe succeduto un giorno come tutti gli altri…
Ma non era finita. Un ultimo sussulto di goliardia era, qualche settimana dopo, ’a manciata, il faraonico pranzo in un ristorante fuori Solarino, cui veniva destinata una parte del ricavato proveniente dalla questua, dalla gim-kana, dal teatro, dal Veglione. Vi partecipavano quanti avessero fatto parte del cast teatrale, ma anche quegli universitari che avessero contribuito attivamente all’organizzazione delle Feriae. Gli altri, gli scansafatiche, mugugnassero pure, a bocca asciutta.   
I soldi che avanzavano costituivano il fondo per l’edizione dell’anno seguente. Tutto questo fino a metà degli anni ’70. Poi, più nulla, fino al 1984, quando, lusingati da Letizia Puglisi e da qualche altro giovane, stranamente malato di nostalgia, ci lasciammo coinvolgere nell’organizzazione delle Ennesimae Feriae Matricularum
(18). Ma, nel rispolverare le feluche, scovate tra altre cianfrusaglie nel fondo di un armadio o di una cassa, ci sorprendevamo a sorridere e, dopo una rapida occhiata attraversata da lampi di ricordi, le riponevamo, restituendole al sonno da cui le avevamo bruscamente e inopportunamente destate. Avevamo, allora, quasi la stessa età che aveva l’ingegnere Burgio quando la Matricola era nell’effervescenza degli anni iniziali, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, ma i tempi, e i costumi, erano cambiati, quanto cambiati! Il nostro – non era difficile capirlo – era puro reducismo, l’ultimo, generoso ma sterile, tentativo di ridare cittadinanza a qualcosa di assolutamente estraneo al corpo sociale e culturale del paese. Tuttavia, non potevamo più tirarci indietro. E le Feriae si fecero. Dopo, calato il sipario, staccati i festoni, spente le ultime luci nel salone del Cine-Teatro ‘Diana’, fu chiaro a tutti che quel passato era passato davvero. E ne traemmo le conseguenze, stilandone, da scrupolosi notai, l’atto di morte. Senza traumi, con qualche rimpianto e molta (auto)ironia.

 

APPENDICE


Lo spazzacamino


Su e giù per le contrade / di qua e di là si sente / cantare allegramente / uno spazzacamin. [bis] / Si affaccia alla finestra / ‘na bella signorina / con voce assai carina / chiama lo spazzacamin. [bis] / Prima lo fa entrare / e poi lo fa sedere / gli dà da mangiare e bere / a lo spazzacamin. [bis] / E dopo aver mangiato / mangiato e ben bevuto / gli fa vedere il buco / il buco del camin. [bis] E quel che mi rincresce / mio caro giovanetto / il mio camino è stretto / come farete a salir… [bis] / Non dubiti signora / son vecchio del mestiere / so fare il mio dovere / su e giù per il camin. [bis] / Ma prima di uscire / da questa porta santa / proviamo un’altra volta / su e giù per il camin. [bis] / E dopo quattro mesi / la luna va crescendo / la gente va dicendo / de lo spazzacamin… [bis] / E dopo sette mesi / preparano le fasce / per il bambin che nasce / de lo spazzacamin. [bis] / E dopo nove mesi / è nato un bel bambino / biondo e ricciolino / come lo spazzacamin. [bis].


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(13) Nell’antica Roma, Pontefice massimo era colui che presiedeva il collegio dei pontefici, sacerdoti incaricati di conservare e interpretare le tradizioni giuridico-religiose e di promuovere e sorvegliare le manifestazioni del culto. Nel linguaggio goliardico il titolo subisce uno slittamento semantico con intento parodistico e dissacratorio del Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa. Altrove molto diffuso era il titolo di Gran Maestro, come suprema autorità della goliardia.
(14) Eviti, il giovane lettore, di pensare a un numero massiccio di ‘fuori sede’, come è invece adesso. Pochi, allora, potevano permettersi il lusso di Università lontane.
(15) Sacro e profano riuscivano ancora a convivere, né allora, a Solarino, erano chiaramente avvertibili i segni della progressiva secolarizzazione, se non scristianizzazione, della società, che si manifesteranno, in modo deflagrante, a partire dagli anni Ottanta.
(16)  Don Michele Gozzo, per i due giorni del teatro e della festa da ballo, sospendeva la routinaria  programmazione cinematografica (proiezione di film di terza o quarta visione, cui assisteva un pubblico sempre più calante di spettatori), affittando la sala ad un prezzo esoso per le finanze degli universitari. Non c’erano però alternative, perché don Michele era il proprietario delle due sale (Cine -Teatro ‘Diana’ e Cinema ‘Elena’, più piccolo) utilizzabili per feste da ballo. Bisognava dunque sottostare al ricatto del ‘prendere o lasciare’. Noi prendevamo e don Michele gongolava. Da quasi un trentennio il Cine-Teatro ‘Diana’ è chiuso e in stato di abbandono. Vive solo nella memoria di chi riconosce di avere cominciato ad amare la decima musa (o la settima arte) grazie a quel vecchietto, irritabile sì, ma in fondo bonario.
(17) Nos tribuni universitari… decretamus in nomine Bacchi, Tabacchi Venerisque initium dare [seguiva il numero delle Feriae] Feriae Matricularum cum magno sbafamento atque pumiciamento sine tralasciare tracannamentum vini sinceri.
(18) Erano gli anni del "riflusso". Così, a partire da un articolo di Giulio Nascimbeni sul «Corriere della Sera» del 7 gennaio 1979, si definì quel periodo, «fatto di benpensante moderatismo e di commoventi ritorni all’ovile» (Paolo Morando, Dancing Days: 1978-79. I due anni che hanno cambiato l’Italia, Laterza 2009), che tenne dietro agli anni della militanza politica sfociata nello stragismo, cominciato con la bomba della destra eversiva neofascista alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano (12 dicembre 1969), e proseguito, col concorso dei servizi segreti deviati, della loggia massonica P2 di Licio Gelli e anche della CIA per tutti gli anni Settanta (si tentò anche un colpo di Stato tra il 7 e l’8 dicembre 1970, il "golpe" Borghese). Più di un decennio di terrorismo di destra, dunque, che, proprio all’indomani della strage della Banca dell’Agricoltura, fu definito dal settimanale inglese The Observer "strategia della tensione". Ma gli anni Settanta furono anche gli "anni di piombo", così detti perché insanguinati dalle terrorismo dei gruppi della sinistra extraparlamentare (Brigate Rosse, NAP e altre sigle), che mieté tante vittime, la più illustre delle quali fu il presidente della DC, l’on. Aldo Moro, rapito dalle BR il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio successivo. Gli anni Ottanta sarebbero allora stati segnati dal "riflusso", cioè dall’abbandono dell’impegno attivo in campo politico e sociale e dal ritorno al privato. Furono gli anni per i quali il lookologo e gossipologo Roberto D’Agostino, durante la stravagante e veramente goliardica trasmissione televisiva di Renzo Arbore Quelli della notte (1985), coniò la fulminante quanto fortunata formula di "edonismo reaganiano".

 
 
 

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