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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni II
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

2^ fase

 
 
 

Sebastiano Amato - Franzo Migliore

 

Siracusa e la letteratura nell’antichità. Un caso emblematico:
Naucellio, un siracusano, senatore di Roma e poeta misconosciuto

 

Ci siamo occupati sulle pagine di questo giornale il 20 ottobre scorso di Teodorida, un poeta siracusano attivo nella seconda metà del III sec. a. C. e quasi del tutto sconosciuto.
Siracusa viveva momenti difficili e il fatto che Teodorida, come Teocrito, sia emigrato ad Alessandria ci indica che per la letteratura a Siracusa non spiravano venti sempre favorevoli, anche se la vita culturale non doveva essere del tutto spenta. Siamo, infatti, in epoca pienamente archimedea e sappiamo che Archimede intratteneva  fitti rapporti con i suoi colleghi di Alessandria; ma si trattava di scienza e si sa che essa era dominio di una piccola élite, senza riflessi apprezzabili sulla società.
Un’altra testimonianza, però, ci aiuta a capire che alla fine del III sec. a. C., poco prima della caduta di Siracusa, almeno la cultura teatrale era ancora viva. Questa testimonianza la dobbiamo a Tito Livio che, raccontando le complesse vicende che precedettero l’assedio e la conquista romana, nel libro XXIV al cap. 24 dice: «Adranodoro imprudentemente svelò il piano fatto con Temisto, marito di una figlia di Gelone, ad un certo Aristone attore tragico, al quale era solito confidare altri segreti». E poi continua: «Huic et genus et fortuna honesta erant nec ars, quia nihil tale apud Graecos pudori est, ea deformabat». «Costui era persona onorata e per famiglia e per condizione sociale, poiché l’arte che egli esercitava non lo avviliva, in quanto essa presso i Greci non rappresentava affatto un disonore». Siamo nel 214 a. C. Il nome di questo attore Aríston Syrakúsios lo troviamo, ed è probabilmente la stessa persona, in una iscrizione attica pertinente alle Lenee (una festività importante ad Atene) del 225 a. C (IG 2 2325, l. 8). Aristone, dunque, almeno tra il 225 e il 214 ha calcato le scene del mondo greco con un certo successo. Ne dobbiamo dedurre che a Siracusa l’attività teatrale produceva buoni attori.
Dopo la conquista romana si verifica un momento di crisi e la città si avvia lentamente a diventare bilingue; però per non pochi decenni la lingua predominante, al di fuori dell’amministrazione, era il greco, che i romani, fra l’altro, amavano imparare. Ed è in questa lingua che sopravvive la residua attività culturale. Il livello di questa produzione non sarà stato altissimo, ma una certa tradizione dovette  sopravvivere. E, infatti, nel naufragio quasi completo, comune a tutto il mondo antico, della produzione minore, destinata a non avere visibilità extra moenia, è sopravvissuta solo qualche individualità di livello superiore che è, però, indicativa di un sostrato ancora attivo.
Per Siracusa è il caso di Mosco, poeta bucolico nel solco della tradizione teocritea, amico e allievo del celebre Aristarco, attivo nella seconda metà del II sec. a. C. Scrive in greco e, come Teocrito e Teodorida, trascorre la maggior parte della sua vita ad Alessandria d’Egitto, tolemaica e non ancora romana. Evidentemente Siracusa continuava ad essere un ambiente poco favorevole o almeno indifferente alle lettere.
Dopo Mosco sembra che la cultura letteraria siracusana si esaurisca, ma non è così, perché sempre quella teatrale continua. Ce lo fa credere una iscrizione di Oròpo in Attica, databile all’incirca all’86 a. C., relativa alle feste Amphiaraia, nella quale  troviamo registrato il nome dell’attore comico Zo̅ílos Zo̅ílu (Zoilo figlio di Zoilo) Syrakósios (IG VII 420, l. 28). Lavorava all’estero, diciamo, ma forse si era formato a Siracusa. È un piccolo indizio, ma è indice di continuità. Dopo questa data non si riesce rintracciare quasi nulla, tranne le testimonianze religiose.
Nel IV sec. d. C. emerge finalmente la figura di Firmico Materno, probabilmente siracusano, che operò in Sicilia fra il 330 e il 350. È autore abbastanza noto e non possiamo qui parlare della sua produzione prima pagana e poi cristiana, ma ricordiamo solo che fu l’autore del celebre oroscopo di Archimede, "divinato" senza che l’autore conoscesse  né l’anno né il mese né il giorno di nascita  del più grande siracusano di tutti i tempi.
Sempre nell’arco del IV sec., che attraversò tutto con i suoi novantacinque anni di vita, visse e operò un altro siracusano di notevole livello culturale, vissuto nell’ambiente senatorio  della  Roma di Simmaco e a Spoleto dove la moglie possedeva una tenuta. Fu uomo di cultura pagana raffinata e poeta non disprezzabile. Si chiamava Naucellio, la sua prima lingua era il latino, ma conosceva benissimo anche il greco. Assolutamente sconosciuto e tuttavia non indegno come poeta di essere ricordato. Naturalmente visse la sua vita lontano da Siracusa, ma questo, anche a non saperlo, avremmo potuto immaginarlo.  Di lui, della sua "recente" e fortunosa scoperta e riscoperta, della sua non vasta produzione superstite, salvatasi in maniera avventurosa in un codice miscellaneo, vogliamo parlarvi, per liberarlo dalle tenebre che lo hanno per secoli avvolto e per restituirlo alla sua città.

 

Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, infatti, quello di Naucellio non era che poco più di un nome, uno dei tanti personaggi di cui si trova menzione nell’epistolario di Simmaco (340-402), il famoso panegirista latino che rivestì importanti cariche pubbliche e fu oggetto di grandi onori a Roma e a Costantinopoli, senatore e prefetto di Roma, nonché fiero difensore delle tradizioni romane e del paganesimo. Appunto nel terzo libro del suo Epistolario, sono conservate le lettere da lui inviate a Naucellio, suo amico ed ex collega in senato (epist. 3, 10-16) e dalle quali si ricavavano le uniche scarne notizie che un tempo si avevano su di lui. Le sette lettere, scritte fra il 397 e il 402,  sono dominate dai temi della vecchiaia e dell’età che avanza, motivi che si intrecciano con osservazioni linguistiche e stilistiche e con i vari tentativi di Simmaco di indurre l’amico a rientrare a Roma  per ritornare alle occupazioni che negli anni precedenti lo avevano visto impegnato nella Curia romana. Infatti, dopo aver vissuto a lungo a Roma, insieme alla moglie e ai figli, Naucellio aveva abbandonato gli impegni politici connessi alla sua carica di senatore e la vita mondana dell’Urbe e si era ritirato a Spoleto, in campagna, dove trascorreva, ormai avanti negli anni, una vita serena e tranquilla dedicandosi agli ozi letterari e alla scrittura. Le lettere ci informano, che pur conducendo una vita appartata, Naucellio continuava a intrattenere relazioni coi dotti amici romani, a comporre versi (carmina ed epigrammata)  secondo la tradizione e avendo come modelli gli autori repubblicani e d’epoca augustea (epist. 3, 11, 4; 12, 4; 13, 2), e di tradurre antichi testi greci. In particolare in epist. 3, 11, 3)  Simmaco loda l’amico per aver tradotto dal greco un’opera in cui vengono esaminati "gli antichi ordinamenti politici di tutti i popoli". L’opera, che purtroppo è andata perduta, è stata identificata da alcuni studiosi, tra cui Giusto Monaco, con le Costituzioni del filosofo greco Aristotele (collezione, anch’essa perduta, di 158 trattati sulle costituzioni politiche degli stati, non privi di informazioni etnografiche su greci e barbari).  Lo studioso francese J.P. Callu ipotizza che, con questa traduzione, Naucellio avrebbe voluto gareggiare con Ausonio, che da un’opera frammentaria di Aristotele (Peplos) aveva derivato il materiale utilizzato per la composizione dei suoi epitaphia heroum qui Bello troico interfuerunt. Queste in sintesi le poche notizie che possedevamo su Naucellio fino al 1955, anno in cui fu pubblicata, ad opera di Franco Munari, l’editio princeps di una silloge di epigrammi che da allora furono chiamati Epigrammata Bobiensia e il cui ritrovamento ha, a dir poco, del romanzesco.     
Nel dicembre del 1493 l’amanuense Giorgio Galbiate, allievo e collaboratore del celebre umanista Giorgio Merula, nel monastero di San Colombano di Bobbio (Piacenza), all’epoca uno dei più importanti centri monastici d'Europa, riportò alla luce un cospicuo numero di codici che contenevano opere latine, in prosa e in versi, per lo più inedite. Della straordinaria scoperta si appropriò il merito il Merula che intendeva pubblicare le opere ritrovate. La morte gli impedì di portare a termine il suo progetto e,  negli anni successivi alcuni suoi allievi diedero alle stampe solo alcuni dei codici rinvenuti e contenuti nelle liste stilate dal Galbiate e dal Merula. Di uno di questi codici che, oltre al de reditu suo di Rutilio Namaziano, conteneva una raccolta eterogenea di 71 componimenti (la cosiddetta Sulpiciae conquestio e settanta epigrammi), furono pubblicati, insieme  con le
operette di Ausonio, solo 26 epigrammi, mentre la Sulpicia fu edita a parte anonima. Di questo codice e del suo contenuto, fatta eccezione di quanto era stato pubblicato, si persero le tracce per oltre quattro secoli, finché  nel 1950 il celebre filologo Augusto Campana non ne ritrovò una copia in dieci fogli del codice miscellaneo Vaticanus Latinus 2836, appartenuto all’umanista Angelo Colocci (1474-1549), e forse apografo diretto del perduto manoscritto di Bobbio. Cinque anni più tardi Franco Munari ne pubblicava, come si diceva sopra,  la prima edizione col titolo Epigrammata Bobiensia.
Come oggi la possediamo, la silloge, oltre ai 26 epigrammi già noti e alla  Sulpiciae conquestio, già pubblicati, comprende 44 componimenti, fino ad allora inediti e di diversa natura e provenienza. Tutti i componenti hanno un  unico elemento in comune: le persone che vi sono nominate appartenevano all’aristocrazia romana della fine del IV inizi V sec., in un modo o nell’altro, tutte legate a Simmaco. La maggior parte dei 71 componimenti sono anonimi. Soltanto di 12 di essi conosciamo con sicurezza gli autori: Domizio Marso (epp. 39 e 49), Anicio Probino (ep. 65) e Naucellio (epp. 2-9), tra tutti il personaggio meglio conosciuto, La scoperta di Campana, se da un lato confermava l’attività letteraria di Naucellio, nota fino ad allora solo attraverso la corrispondenza di Simmaco, dall’altra apriva sulla silloge, sulla sua struttura e sulla sua composizione tutta una serie di problemi alla cui risoluzione da anni si dedicano illustri studiosi.
Sono sicuramente di Naucellio gli epigrammi 2-9 e, oltre ad essi, a giudizio di alcuni studiosi, gli si possono attribuire, con ogni probabilità,  anche gli epigrammi 10-22, 25, 47, 50 e 61 (F. Munari e O. Weinreich), e gli epp. 1, 48 e 57-58  (W. Speyer). Nella sua editio princeps, Munari afferma che si debbano attribuire a Naucellio anche gli altri componimenti della raccolta per i quali non viene specificato il nome dell’autore. Comunque sia, gli epigrammi sicuramente autentici ci consentono di farci un’idea più precisa del nostro concittadino. Essi, infatti, confermano i tratti salienti della figura del poeta quale emerge dalla corrispondenza con Simmaco: il suo amore per i classici di età augustea (Virgilio, Orazio, Ovidio) e per la serena vita agreste, dedita alle letture e alla composizione di poesie. Negli epigrammi più intimi e personali (epp. 5, 8b e 9) con uno stile al tempo stesso semplice e curato, il poeta parla di se stesso e dei suoi affetti familiari. In ep. 8b ci fa sapere che era siracusano di nascita, come del resto i suoi genitori ("Siracusani mio padre, mia madre e la mia Patria"), che aveva ereditato il praenomen dagli antenati, conosceva bene il latino ed il greco, che aveva a lungo studiato la poesia greca e latina  e che possedeva una casa, anche se piccola, a Roma, dove era stato legato ai personaggi politici più importanti, dai quali era stato sempre rispettato e onorato; e, infine delinea alcuni tratti di se stesso: "la mia natura è mite, estranea alle liti e all’odio;/ non ho alcuna brama di potere, nessuna sfrenata voglia/per le magistrature, nessun desiderio per l'oro nefasto;". Doti queste che il poeta conferma anche nell’ep. 5, di solito considerato uno dei migliori ed è  ritenuto, come riteneva il compianto Luca Canali «un piccolo capolavoro,  un perfetto equilibrio, quasi una fusione  con temi oraziani e insieme tibulliani, filosofici e bucolici, ma diversi per quel loro procedere solenne e allo stesso  tempo  con una levità e serenità che in Orazio e Tibullo mancano». In esso il poeta, dopo aver esordito nel primo verso "Amo con sobrietà le ricchezze e domino i seducenti onori",  ci fa sapere che gli unici suoi diletti sono gli studi e gli ozi che dedica alla poesia, ma anche "i campi, la casa, i giardini irrorati da sorgenti naturali/ e le amabili statue delle Pieridi dispari di numero". Proprio alla villa di Spoleto sono dedicati i primi tre componimenti (epp. 2-4) e di cui il poeta va fiero per averla fatta costruire, su un terreno di proprietà della moglie Sabina, dove un tempo non c’erano che dei "lavatoi squallidi per lungo oblio" e che ora sono diventati un balneolum, una sorta di terme private in miniatura, dove il padrone di casa poteva intrattenersi in dotte conversazioni con pochi selezionati amici. Infine, in ep. 9, rivolge, a una divinità pagana, l’unica preghiera presente in tutta la silloge: ora che  ha raggiunto i novant’anni, il poeta, cui "nulla più resta del vigore di un tempo", chiede al dio Saturno che gliene restituisca un po’, oppure che benevolo lo liberi da una vecchiaia fatta di sofferenze.
L’immagine dunque che Naucellio dà di sé in questi componimenti è quella di un agiato e riservato benestante che, dopo una vita in gran parte dedicata alla vita pubblica e alla letteratura, ormai vecchio, si ritira in campagna per condurvi un’esistenza all’insegna dell’ideale di vita oraziana, l’aurea mediocritas, che per il Nostro non fu semplicemente un fatto letterario ma anche una scelta di vita. «Naucellio è personaggio emblematico, con la sua stessa scelta di vita, di un tipo di reazione alla crisi dei tempi […]: agli impegni politici e alla vita nell’Urbe, cui desiderava attirarlo Simmaco, preferì una vita più appartata, agreste, dedita allo studio e alla poesia. E sappiamo che fu una scelta di vita vincente, visto che fino a novant’anni poté godere di ottima salute» (Maria Nicole Iulietto). Certamente Naucellio non fu un grande ma,  come ebbe a scrivere Giusto Monaco, un letterato che ci ha lasciato «delle esercitazioni letterarie, spesso garbate e gradevoli, ma nulla di più». Tuttavia è altrettanto vero che, nei suoi pochi versi, ci ha lasciato l’immagine di un personaggio fiero di ciò che ha fatto, ma anche sobrio e modesto (non dice mai di essere stato senatore di Roma!), alieno dal desiderio irrefrenabile, allora come oggi, di fare carriera, e dalla "brama di potere", che a un certo punto della vita ritiene sia giunto il momento di farsi da parte e decide di allontanarsi dalla "turbida Roma" e di ritirarsi nella tranquillità della campagna per godere finalmente appieno dei grandi amori della sua vita: gli affetti familiari e la poesia.

 
 

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