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La Società oggi
 
 


Ricordo di Enzo Tedeschi

 
 
 

Sebastiano Amato  

 

Ho appreso della dipartita di Enzo Tedeschi dalle pagine di questo giornale e su questo giornale, essendomene stata offerta la possibilità, con la solita squisita cortesia, dal Direttore, dott. Bianca, lo voglio ricordare ai Siracusani e ai tanti alunni, dei quali è stato Maestro.
Ne parlo da presidente della Società Siracusana di Storia Patria, alla quale si inscrisse nel lontano 1957, a testimonianza del suo legame con la Città e la sua storia, e alla quale diede un notevole contributo e impulso, ma soprattutto da collega, che ha condiviso con lui al Liceo Classico "T. Gargallo" un’esperienza lunga quattordici anni, dal 1969 al 1983, dei quali dieci al Corso D, in cui Enzo teneva la cattedra di Italiano e Latino ed io quella di Latino e Greco.
Quando conobbi Enzo, sul finire degli anni ’60, avevo della sua figura solo un vago ricordo diretto, acquisito quando frequentavo l’ultima classe del Liceo, dieci anni prima, e sbiadito, quindi, nel corso degli anni, quasi tutti trascorsi fuori Siracusa. Lo conoscevo, invece, molto bene di nome, in quanto egli era anche un personaggio pubblico, attivo nella vita politica della città. Aveva ricoperto, infatti, a partire dl ’56 e fino al ’68 la carica di Consigliere comunale, quella di Assessore alla solidarietà sociale negli anni ’58, ’60-’61, ’64-’65 e ’66, quella di Sindaco di Siracusa dal 10 maggio 1966 al 1° febbraio 1967. Fu una Sindacatura ineccepibile e onesta, ideoque brevis.
Ma per l’impegno e l’imparzialità dimostrati nell’espletamento del mandato, inteso unicamente come servizio alla città, si meritò l’unanime consenso del Consiglio Comunale nell’adunanza di quel primo di febbraio. Tutte le parti politiche, infatti, e specialmente quelle all’opposizione - cosa certo di non poco conto - diedero pubblicamente atto della sua sensibilità democratica, della sua correttezza «e soprattutto della adamantina onestà con la quale aveva condotto la cosa pubblica nel periodo della sua sindacatura …» (S. Formica, Capogruppo del PSU). E l’avvocato G. Panico, Capogruppo del PSIUP e fiero avversario politico, affermò di essere orgoglioso, come siracusano, di poter annoverare il prof. Tedeschi fra i siracusani di elezione «perché egli è l’unico che lascia la carica di Sindaco senza dissociare la sua onorabilità pubblica da quella privata». Giudizi lusinghieri, che dimostrano la tempra morale di Enzo Tedeschi come amministratore, e ne testimoniano indirettamente l’altezza del suo magistero come docente, proponendolo come esempio notevole  delle capacità di trasferire i valori morali dalla scuola alla società, senza machiavelliche soluzioni continuità.
Quando, dunque, ebbi l’opportunità di conoscerlo direttamente, mi colpì subito la sua energia fisica, il suo tratto vigoroso e pronto, il senso di sanità fisica e morale che emanava dalla sua persona, e che mi venne fatto di definire allora, non so perché, carducciano. E confesso che ancora oggi concordo con quella mia prima impressione di tanti anni fa. Ma ancor di più mi impressionò la rapidità con cui ogni sentimento, ogni moto dell’animo traspariva nel volto e nel gesto, in un segno chiaro e inequivocabile, nel quale era possibile leggere con assoluta sicurezza.
L’effetto dei contrasti immediati e vibranti era di una forza comica irresistibile. Indimenticabili i suoi duetti arguti, ironici, briosi, con Santino Carta, al quale Enzo alla fine con invariabile rituale confermava l’accordo o il disaccordo, scuotendolo con poseidonica vigorìa, col serio pericolo di comprometterne l’integrità fisica.
Dietro, però, si nascondeva (ma non troppo) la profonda serietà dell’uomo, la sua sicura e solida preparazione, l’onestà intellettuale, dalle quali derivava il suo impegno sereno e coerente sempre risoltosi in un magistero attento e concreto, senza utopistici svolazzi in opportunistiche o, peggio ancora, interessate pedagogie, tanto accattivanti quanto dannose e transeunti, come diceva. Questo atteggiamento si traduceva sempre in lui nel rifiuto di ogni fumosa e narcisistica esteriorità culturale, che pretendesse di celebrare sull’altare della scuola frettolose teorie. Da qui le sue punte polemiche nei confronti del potere politico, insensibile ai veri problemi della scuola, ma impegnato summo studio in una gara di scelte improntate a pura demagogia.
In lui convivevano sano ed equilibrato senso della tradizione, di cui non rifiutava naturalmente l’approccio critico, e attenzione alle problematiche sociali, specchio di una realtà socio-culturale che dettava condizioni ineludibili di atteggiamenti e di comportamenti. In questa serena disposizione critica e umana credo debba ricercarsi la base del suo insegnamento fare bene quello che si può fare e non tentare di fare ciò che sicuramente si farà male.
L’insegnamento era per lui, infatti, l’arte di insegnare ai giovani a ragionare e ad esercitare il loro spirito critico, e non semplice travaso di scienza o di astratte analisi critiche, spesso costrittive e limitative delle scelte degli alunni, quando ad esse non si accompagnino adeguate letture di testi.  Da qui l’esigenza primaria della sua attività didattica: privilegiare al di là della critica l’approccio diretto ai testi, nella convinzione che la lettura fosse l’elemento indispensabile sul quale costruire ogni ulteriore intervento critico, altrimenti astratto, se non addirittura fuorviante. Non è che non credesse nelle ragioni della critica e dei critici, ma credeva di più in quelle dell’arte e dei poeti, e voleva che a questi ultimi direttamente gli alunni innanzi tutto attingessero. Il suo metodo avrebbe lasciati delusi gli appassionati di citazioni e di bibliografie sterminate, ma era un monito agli alunni e ai colleghi più giovani a cercare sempre il pensiero genuino degli autori e la loro arte nello studio attento dei testi e non solamente nella congerie delle interpretazioni della critica. Non voleva insomma che la scuola fornisse solamente una somma di cognizioni a servizio di quelli che Concetto Marchesi chiamava i pappagalli della memoria. E di ciò non faceva mistero né con gli alunni né con i colleghi, anzi sosteneva le sue posizioni con grande vigore e chiarezza.
A questa onestà intellettuale si accompagnava, come detto, un risentito rigore morale, inteso come coerenza di pensiero, rispetto assoluto delle idee e delle opinioni degli altri, comprensione profonda per le ragioni degli alunni, che hanno trovato sempre in lui un maestro di cultura e di vita senza reticenze e sottintesi. E di lui proprio questo ho maggiormente ammirato: la capacità di portare nel suo impegno quotidiano e nel rapporto con gli altri una chiarezza cristallina di atteggiamenti e di giudizi, una coerenza di posizioni, mai per opportunismo cambiate, che mi autorizzano a dire con Matteo «Sermo suus erat est, est; non, non» (5, 37), sicuro di non essere lontano da ogni retorica esaltazione.
In questo risiede sia il senso più vero del suo insegnamento e la lezione più profonda della sua umanità sia il segreto della sua vita pubblica, sociale e politica, intesa sempre come atto profondamente morale al servizio della comunità, attuazione di quei principi dei quali fu "maestro" per tante generazioni di studenti.
Egli, infatti, sapeva - e cercò di dimostrarlo sul campo - che il progresso della società passa solo attraverso il progresso della scuola, onde le cure ad essa dedicate non sono mai troppe. A tanti anni di distanza in Italia si discute, talora vaneggiando, ancora (!) di questo.

 
 

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