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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni I
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

 
 
 

Sebastiano Amato

 

Teodorida, l’ultimo poeta di Siracusa greca

 


Se Carneade era per il povero don Abbondio un perfetto sconosciuto, ancor più lo sarebbe stato Teodorida, nel caso in cui il buon curato manzoniano ne avesse per avventura letto il nome in una delle sue abitudinarie e rilassanti (non sempre in verità) letture.
E in questo caso avrebbe avuto certo la solidarietà di moltissimi, considerato che questo poeta siracusano vissuto nella seconda metà del III sec. a. C. è sconosciuto praticamente a tutti, se si escludono pochi specialisti di poesia ellenistica. L’oblio, infatti, è calato su di lui e ne ha quasi cancellato ricordo e memoria. Non meritava questo destino ed è per questo che vogliamo parlarne, per dare, forse, l’illusione che il tempo "galantuomo" lo abbia richiamato dal regno delle ombre e lo abbia per un momento restituito alla sua città e ai suoi concittadini.
Teodorida è poeta di epigrammi, un genere di poesia dotta, che nella brevità, condensata nel giro di pochi versi, cerca di cogliere ciò che è essenziale e significativo, l’attimo che fugge e il "per sempre". Ma coltivò anche altri generi di poesia. Egli, concittadino nostro e del grande Teocrito, ben figura, quindi, in compagnia di Leonida di Taranto e di Nosside di Locri. Questa triade di poeti, fra i quali significativamente una donna, ci permette di meglio cogliere e definire l’unità culturale del mondo coloniale siculo-magnogreco, malgrado le indubbie differenze e tipicità, e di solidamente collocarla all’interno della storia della civiltà ellenica, nel nostro caso in epoca ellenistica.
La sua figura, però, è quasi sparita e, dopo la raccolta di Olivieri, solo nel 1964 Seelbach ha pubblicato una edizione degli epigrammi, seguita subito dopo da quella di Gow-Page (1965). Ancor più tardi, nel 1983, sono state raccolte nel Supplementum Hellenisticum di Lloyd-Jones e Parson le relative testimonianze. Così la critica, soprattutto per merito di Marcello Gigante, ha potuto meglio delineare la figura di questo poeta, rendendogli quello che merita. Eppure ancora M. Fantuzzi - R. Hunter, Muse e Modelli. La poesia ellenistica da Alessandro Magno ad Augusto, Bari 2002, ricordano il poeta solo per nome en passant, cioè in un elenco a p. 419 e a p. 447 con riferimento a determinate caratteristiche tipiche dell’epigramma ellenistico. Altri non lo citano affatto.
La tradizione è stata un po’ avara e ci ha conservato solo 19 epigrammi e altri due componimenti, che, comunque, sono sufficienti per valutare sensibilità e cultura del poeta. Questa possibilità la dobbiamo a Meleagro di Gadàra che inserì la produzione epigrammatica di Teodorida nella sua Corona e paragonò la sua poesia al serpillo fiorente (
neothales) che si imbeve del vino (philákretos) [A.(ntologia) P.(alatina) IV 1, 53]. E la pianta del serpillo (una delle specie del Thymus), consacrato in Teocrito alle Muse Eliconie (A.P. VI 336, 1-2 katápyknos… hérpyllos = Ep. I Gow), può indicare una poesia sostanziata di cultura, ma anche innovatrice, non indegna di rappresentare, accanto alla produzione teocritea, il genere epigrammatico della Sicilia antica, di Siracusa in particolare (Gigante).
La sua poetica si muove tra Leonida, Euforione e, soprattutto, Callimaco, in una dimensione panellenica, profondamente permeata dalla koiné culturale del mondo ellenistico. Tuttavia il poeta non manca di rivendicare la sua originalità, come appare dagli epigrammi polemici nei confronti dello stesso Euforione e di Mnasalce, dimostrando non solo di avere modelli, ma anche di partecipare attivamente al dibattito sulle poetiche a lui contemporanee.
Accennavo sopra alla sua dimensione panellenica, al di fuori e al di là  di asfittici posizionamenti che oggi siamo usi chiamare provinciali: essa appare anche nell’ambien-tazione paesaggistica dei suoi epigrammi, che spazia dalla Sicilia alla Magna Grecia, dalla Tessaglia a Cipro, dalla Iapigia all’Adriatico e, forse, da Atene a Efeso. Ma innanzi tutto gli fu probabilmente familiare il  paesaggio che va da Capo Peloro a Pachino, da Messina a Siracusa, il paesaggio che più è proprio della Sicilia greca. Eppure, forse anche per le lacune della tradizione,  un solo epigramma (A.P. VI 224) è ambientato in Sicilia, a Capo Peloro. È probabile che Teodorida abbia trascorso la maggior parte della sua vita lontano da Siracusa. Destino, questo, che lo accomuna a Teocrito e, forse, a Mosco, grammatico e poeta, che ad Alessandria fu amico e scolaro (
gnōrimos) di Eratostene (Su(i)da).
Dei diciannove epigrammi tramandati alcuni sono epitimbici, cioè epigrafi, iscrizioni su pietra, altri sono anatematici, cioè dedicatori, votivi. Gli uni e gli altri marcavano momenti importanti e significativi della vita sociale. Ne voglio proporre alcuni, cominciando da A.P. VI 282, un perfetto epigramma dato che il tema è svolto in un solo distico e si sa che l’epigramma Einzeldistichon era l’ideale vagheggiato dai poeti. Si tratta del motivo della morte del naufrago, un tema frequente e comune, ad es. in Leonida. Teodorida, però, lo svolge in maniera originale, semplice ed essenziale: non condanna l’audacia del navigante che sfida il mare, magari in inverno, ma invece esalta la continuità della vita al di là e oltre la morte dello sfortunato naufrago, la cui vicenda rappresenta solo un momento dell’inarrestabile flusso della vita umana. Da qui l’invito a navigare. Parla la tomba:

Di un naufrago sono tomba: tu però naviga.
Perché quando noi morivamo, le altre navi
continuavano ad andare per mare.


In altri epigrammi il poeta ci appare pensoso cantore di Thànatos e riesce a trovare, recuperando e variando immagini e tematiche omeriche ed eschilee, toni partico- larmente sensibili sul tema, caro ad Euripide, della mors ante diem, con risultati non inferiori a molti altri poeti di epigrammi. Così nell’epigramma (A.P. VII 439) per la morte del giovane guerriero tessalo o tebano Pilio, che viene mietuto come una spiga appena sbocciata. Contro di lui la Moira, il destino, spinge le Keres cagne di Ade:

Così Pilio,figlio di Agenore, o Moira,che non distingui,
prima del suo tempo falciasti via dai giovani Eoli ;
tu gli eccitasti contro le Keres cagne della vita; ahimé, quale uomo
giace, preda di Ade, démone che ignora il sorriso
.

Significativo anche l’epigramma per il tessalo Doroteo (A.P. VII 529), che è aperto, contrariamente all’uso, dalla gnome e contiene la bella immagine del giovane che sacrifica la vita per la sua città e per la libertà:

L’audacia porta l’uomo all’Ade e al cielo
e fu l’audacia che fece salire la pira al figlio di Sosandro, Doroteo;
per Ftia e la libertà fece getto della vita,
e fu annientato tra Sece e Chimere.

Nell’epigramma per Fenarete (A.P. VII 528), giovane tessala morta al primo parto, il tono si fa elegiaco. Anche qui, utilizzando una vasta e lunga tradizione, il poeta riesce a creare un momento nel quale i gesti rituali esprimono affetto e al tempo stesso terrore e sbigottimento per la tragica morte, veramente anzi tempo, della giovane, che ha riempito di angoscia la città di Larissa:

Intorno al sepolcro, ampio loculo, di Fenarete  allora
tessale fanciulle recisero i biondi riccioli,
sbigottite per l’orrido destino della sposa morta al primo parto,
che angosciò la sua città, la cara Larissa, e i genitori.


Molto bello e anch’esso con qualche tono elegiaco l’epigramma anatematico (A.P. VI 155), in cui Cròbilo, un bimbo di quattro anni, offre e dedica ad Apollo la sua chioma coetanea. Sono le primizie della sua puerizia, accompagnate dal sacrificio di una vittima e dall’omaggio di una focaccia. Il bimbo si affaccia alla vita e il poeta sa che sarà difficile. Per questo, piena di umanità e di speranza è la preghiera del bimbo che  chiede al dio la grazia di diventare adulto:

Hanno la stessa età Crobilo e le chiome che per Febo
cantore recise il bimbo di quattro anni:
un gallo guerriero offrì e una focaccia
pingue di formaggio il figlio di Egesìdico.
O Apollo fa che Cròbilo giunto alla maturità virile
stenda le mani  sulla casa e sui possessi
.

Lo stesso sospeso sentimento di umanità, pur nello splendore della giovinezza, cogliamo nell’epigramma (A.P. VI 156) per l’epifania di Carìstene. È come se il poe- ta, che sa della precarietà della vita, voglia raccogliere il sentimento più intimo della madre, trepida per il futuro del figlio, e fermare questo momento di luce, nel timore che l’incanto si spezzi:

Alle ninfe Amaryntiàdes offrì Calò questa chioma
giovanile di Carìstene, ornata di cicala, e un bue,
spruzzati di acqua lustrale. Brilla il fanciullo
come stella, quasi un cavallo che abbia scosso
via da sé lanugine di puledro.

Nell’epigramma  A.P. VI 222, di sei versi, abbiamo, sulla scia di Callimaco, un dialogo tra osservatore e dono votivo. L’oggetto, una conchiglia, un labirinto marino, dice con originalità il poeta, racconta in quattro versi la sua storia, che racchiude tutto un mondo: viveva nello Stretto di Messina e fu sputato dal mare quasi dono dell’onda del Capo Peloro, consacrato ad una divinità marina. Dionisio, figlio di Protarco, lo trovò e lo raccolse, per farne dono gradito alle Ninfe dell’Antro come piacevole trastullo. Cogliamo un senso di profonda immedesimazione nei brevi tratti del paesaggio che sembrano familiari:

- O labirinto marino, tu dimmi, chi ti trovò preda
del mare canuto e ti dedicò?
- Alle Ninfe dell’Antro giocattolo (ma io sono dono del sacro Capo Peloro)
mi dedicò Dionisio, figlio di Protarco;
lo Stretto tortuoso mi sputò fuori, perché fossi
un giocattolo delle splendenti Ninfe dell’Antro
.

Interessanti, sotto il profilo della poetica e della polemica letteraria, gli epigrammi fittizi su Euforione (A.P. VII 406) e Mnasalce (A.P. XIII 21), come abbiamo già detto, ma non è qui il caso di parlarne.
L’«orizzonte geografico» di Teodorida arriva fino a Cipro, sulle cui scogliere la nave di Timarco fa naufragio, trascinando negli abissi il mercante. Certo, la situazione era frequente e nell’epigramma (A.P. XI 495) ci sono elementi convenzionali, di scuola , sicché il lettore avvertito coglie echi, sapientemente variati, di Omero, di Leonida, di Euforione. E questa tecnica era tipica della poesia dotta. Ma  coglie anche  la capacità del poeta di fissare i particolari del paesaggio e di farci vedere quasi le aguzze punte delle scogliere della lontana e mitica Salamina di Cipro, le folate del violento Libeccio, definito con abilità
hybristes, colpevole di hybris, e il povero Timarco sul litorale, ridotto a kónis amphimélaina, cenere nera. E  ne apprezza il finale, in cui non sono i compagni, come spesso, ma i congiunti a comporre pietosamente il cadavere restituito dai marosi, quasi  a consolazione per il morto:

Le chiavi del mare e le scogliere estreme di Salamina,
il violento vento Libeccio ti uccisero, o Timarco,
insieme con la nave e il carico; ma la tua cenere nera,
o sventurato, raccolsero  compassionevoli  i congiunti
.

Abbiamo la storia di un naufragio, e la sintesi di una vita.  Questa breve analisi ci dà l’idea, credo,  delle qualità del poeta.
Teodorida, per quel che sappiamo, fu l’ultimo poeta di Siracusa greca, perché con Mosco scendiamo alla metà del II sec. a C. e Siracusa è già da molti decenni romana. L’indimenticato prof. Marcello Gigante, allora Presidente dell’Associazione Italiana di Cultura Classica, parlando a Siracusa il 22 novembre 1987, a conclusione del Convegno Nazionale "Siracusa e l’Occidente greco" organizzato dalla Delegazione Siracusana di Cultura Classica "Renato Randazzo", terminava la sua bella prolusione, che volle anche essere un omaggio a Siracusa, con queste commosse parole: «Teodorida amò e cantò la sua terra, questa terra carica di storia e di arte, ma non rimase prigioniero dello Stretto tortuoso. I suoi epigrammi sono degni di stare accanto a quelli più famosi di Teocrito … Sono lieto di averveli fatti risentire, spero, in tutte le loro valenze, qui, nella sua città, dopo più di duemila anni, e credo di poter affermare che il nome di Teodorida, come il nome di Leonida di Taranto, non è morto».
Il sottoscritto, in quel tempo ormai lontano presidente della Delegazione siracusana, presentò subito alla Commissione Toponomastica di Siracusa un’istanza con richiesta di intitolazione di una strada a questo nostro concittadino di oltre ventidue secoli or sono, sconosciuto ma non indegno di memoria, testimonianza della vitalità culturale dell’ultima Siracusa greca. Sono passati quasi trentatré anni e l’attuale presidente della Delegazione, il terzo per la precisione, prof. Paolo Madella, credo attenda ancora la risposta. Evidentemente unicuique tempora sua. Ma che significato, in fondo, può avere una dilazione di altri trentatré anni, a fronte di oltre ventidue secoli? E così "non ci ha potuto nessuno", come volgarmente diciamo, neppure il dio che il nostro poeta porta all’inizio del suo nome bene augurante: Teodorida, patronimico di Teodoro, che interpretato, direbbe un antico grammatico, significa «dono del dio».

 

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