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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni I
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

 
 
 

Salvatore Santuccio

 


La storia serve a leggere il presente:
Tra Covid-19 (2020) e Colera-37 (1837)

 

    

   “Siamo in guerra”, questa forte espressione del presidente Macron di qualche giorno fa ha sicuramente gelato i cuori dei francesi ed è subito rimbalzata in un’Italia già da tempo sofferente per i drammi legati al contagio da Covid-19. Tuttavia, se il momento è sicuramente triste e duro, mi sembra improprio l’utilizzo di questa espressione ed in particolare per l’Italia se non altro perché la nostra Nazione ha perso quasi tutte le guerre e quando le ha vinte spesso è accaduto perché hanno abbandonato gli altri. Tuttavia, se con questa affermazione si tende a rivendicare o giustificare il necessario atteggiamento autoritario che lo Stato deve assumere per controllare la vita dei cittadini e istradarli verso l’uscita dall’emergenza, beh! in questo caso “siamo in guerra”. Qui lo Stato diventa quel Leviatano di hobbesiana memoria che deve gestire in modo autoritario il popolo; che si arroga la possibilità di sospendere quei diritti sanciti dalla Costituzione; che obbliga quindi gli operai e i contadini ad andare a lavorare per difendere gli interessi di una “Patria” dichiarata in pericolo; che limita la libertà di stampa per evitare che possa diffondere notizie non “gradite” e che per un tempo “limitato” agisce quindi con estrema autorità. Se la storia purtroppo non riesce ad essere “magistra vitae”, dovrebbe essere almeno il veicolo privilegiato per capire il tempo presente, come afferma il prof. Benigno, o dovrebbe accompagnare, soprattutto nel tempo presente, le nostre riflessioni sull’eterno conflitto tra uomo e microbi, come in un altrettanto recente articolo del prof. Adorno. Ma spesso nulla di questo accade, la nostra memoria sacrifica, anzi è il caso di dire dimentica la parte a lungo termine per mantenere solo quella a breve termine e malgrado tutti gli eventi che attraversano la nostra esistenza solo momentaneamente ci indigniamo, accusiamo, affermiamo di voler cambiare o nel miglior dei casi rivoluzionare il nostro modus operandi per cadere in un gattopardiano dimenticatoio dei buoni propositi. In questa circostanza mi sembra opportuno richiamare la vostra attenzione su un episodio che ha cambiato non solo la storia siciliana, ma che si è allargato a quella europea sollecitando un forte dibattito politico; il tutto partito dalla drammatica diffusione del colera del 1837. Le analogie con il periodo che stiamo vivendo sono veramente molte; anche quando il colera comparve per la prima volta in Europa i medici dovettero affrontarlo in condizioni di grande sfavore: lottavano contro un nemico ignoto che non sapevano come arginare né tanto meno come curare. Si sapeva solo che da tempi immemorabili era endemico nella regione tra il Gange e il Bramaputra e che dal 1817 a seguito dei movimenti militari e commerciali degli inglesi cominciò a diffondersi anche in India e poi in maniera lenta ma inesorabile contaminò l’Europa. Le comunicazioni nella prima metà dell’Ottocento erano diverse dalle odierne; il procedere dell’epidemia, infatti, nel 1829 raggiunse la Russia, poi passò in Polonia, in Prussia, in Austria, nel 1832 era in Francia e da questa, nel 1835, cominciò ad arrivare in Italia.  Malgrado la lentezza del contagio anche in questa circostanza nessuno a livello governativo si preoccupò di attrezzarsi per evitare una possibile ecatombe, tuttavia partì l’ennesimo utilizzo politico dell’evento, sin da subito, infatti, si diffusero due teorie che tentavano di spiegare i meccanismi della propagazione della malattia: quella del contagio e quella dell’epidemia. Indipendentemente da ragionamenti scientifici, per uno Stato optare per l’una o l’altra teoria aveva importanti implicazioni sia a livello pratico che a livello politico. Se la diffusione del colera fosse stata ritenuta contagiosa diventava indispensabile tenerla lontana attraverso cordoni sanitari, quarantene e lazzaretti; al contrario se si dava credito alla teoria dell’epidemia, tutti i citati mezzi risultavano inutili poiché era impossibile bloccare una malattia che si diffondeva attraverso l’aria. Anche in questa circostanza gli Stati europei si differenziarono nelle loro scelte, ma c’è da sottolineare che ancora non esisteva alcuna forma di “unione europea”. Infatti, anche se era impossibile scindere in maniera netta chi credeva nel contagio da chi invece nell’epidemia, era stato dato un vero e proprio significato politico all’optare per l’una o per l’altra scelta. Prevalentemente gli Stati e i paesi reazionari ed autoritari consideravano la diffusione per contagio, mentre gli Stati liberali si basavano sull’idea dell’epidemia. In Italia (ricordo però ancora questa era solo un’espressione geografica) anche se mai ci fu questa totale scissione tra le due teorie si pensò di utilizzare la visione del contagio per prendere severi provvedimenti e ripulire le città da sudiciume, tentando come si disse di renderle più “igieniche”, teorizzando strategie nuove per progettare nuovi spazi di aggregazione. Sotto l’aspetto epidemiologico si applicò subito uno stretto controllo sul passaggio di uomini e merci istituendo severi cordoni sanitari. Ovviamente questi ultimi, sin da subito, disturbarono gli interessi privati, il commercio, i movimenti locali e soprattutto resero controllabile ogni azione entro i confini nazionali e cittadini, anche se non con i recenti droni o con l’hackeraggio informatico; il controllo fu allargato non solo alle merci e alle persone ma anche alle corrispondenze per scovare la diffusione delle tanto temute idee democratiche. Anche nel Regno delle Due Sicilie l’attenzione al problema del colera sin dall’inizio degli anni trenta diventò sempre più pressante e il punto più debole era rappresentato dalle coste. Fu proprio qui che si registrarono in percentuale il numero maggiore di morti; le cronache riportano solo nel Regno di Napoli, al di qua dal Faro, più di novantamila morti mentre in Sicilia i morti furono quasi settantamila. Sin dal 1831, sei anni prima dell’arrivo del contagio in Sicilia, quando cominciarono ad arrivare le notizie che stava attraversando tutta l’Europa, il governo borbonico cominciò a porvi rimedio strutturando un regio decreto che regolamentava le precauzioni da prendere per tentare di evitare il contagio. Uno dei primi atti normativi messi in opera fu quello di ridare potere al “Magistrato Supremo di Salute pubblica” che aveva sede a Palermo e in generale alle “Deputazioni sanitarie” che si trovavano nelle intendenze. Queste istituzioni, che erano state abolite nel 1820, bypassavano tutte le altre ed erano in grado di prendere provvedimenti per bloccare ogni attività con un’autorevolezza assoluta. Il Magistrato di Salute si riappropriò del suo potere attuando una serie di provvedimenti che definirono quasi un suo primato sugli altri poteri istituzionali dell’Isola: ad esso dovevano essere ricondotti i compiti di polizia, di sorveglianza, ma anche di governo dello spazio urbano a partire dalla pulizia delle strade. Da questo momento una vera e propria moltitudine di decreti e circolari cominciarono a perfezionare i poteri della Deputazione sanitaria, primi fra tutti l’istituzione di casine sanitarie, piccoli posti di controllo che, situati lungo tutta le coste siciliane, avevano il compito di sorvegliarle. Il re ordinava ad ogni Intendenza (leggi oggi Prefettura) di istituire, a proprie spese, i cordoni sanitari che dovevano permettere di proteggere la cittadinanza dall’epidemia. Il decreto mobilitava tutti: nobili, ecclesiastici, persone civili, artigiani e possidenti a collaborare e dare l’esempio nell’osservare le dette regole e riferire alla deputazione di sanità ogni evento straordinario o l’insorgere di qualsiasi problema. La figura dell’intendente (leggi oggi prefetto) era, in un certo modo, superato da un organo che, senza altre autorizzazioni, poteva intervenire in ogni elemento della vita pubblica organizzando la pesca, tutte le attività commerciali e controllando chi entrava o usciva dalla città ivi comprese tutte le attività portuali e marittime. Ovviamente il colera entrò a pieno titolo fra i temi di competizione politica tra i gruppi di elités che miravano al controllo degli apparati statali, dei poteri locali, della società. Il  6 ottobre 1836 fu attivato in Sicilia il cordone sanitario terrestre da Milazzo a Siracusa, dal 13 ottobre esteso a tutta l’isola e contemporaneamente fu definitivamente attivato il cordone sanitario marittimo, esteso a tutto il litorale siciliano. Quest’ultimo venne diviso in cinque sezioni: I. Da Palermo a Castel Vetrano; II Dai Mazzarelli a Catania; III Da Catania a Capo Raysicurmo; IV Da Castel Vetrano ai Mazzarelli; V Da Capo Raysicurmo a Capo Zaffarano. La struttura che si era preparata contro il colera era estremamente capillare e riusciva a controllare ogni attività, ogni posto di controllo era formato da due guardie e cinque volontari provenienti da tutte le classi sociali. Certo, anche in questa circostanza ci fu chi voleva trarne vantaggi personali e la possibilità fu data dalla persistenza di organi consultivi come le commissioni provinciali e comunali che dovevano affiancare i diversi magistrati di salute. Iniziarono così i classici scontri di attribuzione delle competenze perché tali commissioni concorrevano  con l’intendente e la deputazione sanitaria marittima al controllo del territorio; per fare qualche nome a Siracusa nel 1837 era formata dai deputati marittimi: cav. Ignazio Migliaccio, Giuseppe Beneventano, cav. Francesco Lanza, Francesco Arezzo e Vincenzo Cinì, tutti appartenenti a famiglie nobili siracusane, molti dei quali anche decurioni (leggi oggi consiglieri comunali), che avevano forti interessi a partecipare all’organizzazione del territorio, tentando di gestire autonomamente tutti gli affari transitanti dal porto. Alle commissioni comunali, in particolare, era demandato il controllo sulle botteghe dove venivano venduti i generi alimentari affinché non si mettessero in commercio cibi malsani, o sui macelli, per impedire la vendita di carne “morticcia”, cioè carne macellata di animali colpiti da qualche malattia, ed ancora sulla frutta immatura, sul vino affinché non fosse troppo nuovo, e sulle farmacie per vigilare sul possesso di medicamenti atti a curare il colera. Come vedete ritorno a dire che la storia serve a leggere il presente ed ancora un controllo particolare era affidato alla pulizia delle strade, dei vicoli, delle latrine, degli acquedotti e delle abitazioni della “bassa gente”. Rimanendo a Siracusa, vennero costruiti molti posti di guardia (vedi pianta allegata) tra i quali due nel Porto Marmoreo, strategico per l’approdo delle barche di piccola stazza, ed ancora sulla porta di mare che fu chiusa nelle ore notturne per poter controllare gli sbarchi. Il porto grande fu interessato da un pesante ed impenetrabile cordone sanitario che riuscì a controllare ogni tipo di movimento di uomini e cose. Qui evidentemente si sviluppò un utilizzo politico oltre che commerciale del cordone che bloccava ogni residua libertà di movimento, la stessa organizzazione delle barche e delle postazioni site nel porto grande lasciavano supporre come fosse stato organizzato un primo filtraggio di uomini e merci che entravano in città e come fosse oramai la commissione provinciale di salute pubblica a gestirlo. Una parte del porto fu organizzata in modo tale da contenere un vero e proprio lazzaretto (la cui struttura è esistente ancora oggi) che potesse controllare ogni persona, nave o merce che doveva entrare in città, operando non solo una scrematura su personaggi e cose, ma anche una insensata tassazione o una preventiva operazione di polizia. Ovviamente l’istituzione del cordone sanitario comportò un aumento delle spese sia per la costruzione delle baracche del cordone terrestre che per il pagamento delle guardie stipendiate, aggravio che fu distribuito nei vari comuni. Per far fronte a tali spese fu ordinato dall’intendente, senza autorizzazione del Governo, di aumentare i dazi sui beni di prima necessità. Qui vi fu una vera e propria ribellione dei comuni e solo Noto, Pachino e Rosolini obbedirono a tale richiesta. La popolazione viveva quindi il cordone come una nuova gravosa tassa che provocava altresì la paralisi dei commerci e delle comunicazioni, oltre a un ulteriore impegno per la sorveglianza, alla quale fu destinato un ingente numero di persone che mal volentieri si recavano in zone paludose o malariche per tre tarì al giorno, anche perché in quelle zone si moriva già di malaria. Si arrivò ad utilizzare come guardie anche i sacerdoti, ma tutto questo non impedì ovviamente che in città arrivasse il colera e che molte persone fossero contagiate. Il contagio, le incertezze amministrative, la pesantezza del cordone sanitario che impedì la libera circolazione di uomini e merci, assieme all’esplosione di una campagna alla ricerca degli untori (che si pensò subito fossero di matrice governativa) fecero esplodere nel 1837 una delle rivolte più sanguinose che Siracusa e la Sicilia attraversarono nella storia moderna, tanto sanguinose che determinarono per la città la perdita del capoluogo di provincia che passò a Noto. Ma questo è l’inizio di un’altra storia…

 
 

 
 

N.B.: Per motivi tecnici non è stato possibile inserire online la pianta delle dislocazioni delle "Casine" di controllo sanitario istituite dall’Intendenza e dalla Deputazione Sanitaria di Siracusa nel 1837. E' possibile visionarla nel file PDF scaricabile.

 

(scarica il file PDF)

 
 

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