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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni II
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

2^ fase

 
 
 

Sebastiano Amato  

 

Uomini e eroi dell’Iliade.
Sarpedone e Glauco: eroi intellettuali

 


Non coglie la sostanza profonda della poesia omerica chi pensa che gli eroi dell’Iliade siano monoliti, macchine semplici, programmate solo per la battaglia, perché, al contrario, il poeta aspira a rappresentare in essi l’ "uomo".  L’ Iliade, infatti, deve essere letta come una grande metafora della vita, poiché niente di quello che accade agli "eroi" non può non accadere agli uomini e ovviamente alle donne. Proprio la sua natura enciclopedica ne rivela il carattere di strumento pedagogico tradizionale (G. Murray, The Rise of he Greek Epic, Oxford 1934;  Havelock, Preface to Plato, tr. it. Bari-Roma 1973; A. Lo Schiavo, Omero filosofo. L’enciclopedia omerica e le origini del razionalismo greco, Firenze 1983)  Questo caratteristica credo ne faccia anche una sorta di metafora pedagogico- educativa e un modello formativo attivo fino ad Alessandro Magno, in cui il poeta fissa «l’impronta del passato e il progetto per il futuro»(I. Calvino, Come leggere i classici, Milano 1991, p. 22).  E come tale fu recepita dai Greci. Gli eroi sono, quindi, prima di tutto uomini, anche quando figli di dei, e come tali complessi, contraddittori,  limitati, e, per questo, è impossibile  decifrarli  fino in fondo e ricondurli a una dimensione psicologica compatta e coerente. Se questo vale per gli altri eroi, a più forte ragione vale per Sarpedone e Glauco, gli eroi intellettuali del poema. Fra gli uomini, attori del dramma troiano, infatti, essi  si distinguono per le loro qualità culturali e intellettuali, e sono significativamente due eroi non achei e non troiani, bensì lici.  Di essi in questa occasione  ci interessano relativamente le loro imprese eroiche, che pur compiono, specialmente Sarpedone, e molto di più le loro riflessioni e le loro considerazioni.

La presentazione dei due eroi avviene proprio alla fine del cosiddetto  Catalogo delle navi:   

Σαρπηδν δ' ρχεν Λυκων κα Γλακος μμων
τηλθεν κ Λυκης, Ξνθου πο δινεντος.  

Sarpedone guidava i Lici e Glauco perfetto,
di lontano, dallo Xanto vorticoso (II 876-877; tr. Calzecchi Onesti)

Solo due scarni versi, dai quali apprendiamo che i due eroi vengono la lontano, dalle correnti del biondo e vorticoso Xanto. Un po’ poco, se pensiamo che nel poema i Lici appaiono  come i più agguerriti alleati dei Troiani. Niente fa presupporre il ruolo importante dei due eroi avranno nel definire le coordinate ideologiche e i "valori" dei combattenti a Troia. L’avverbio "di lontano" li colloca , tuttavia, in una dimensione altra, come se la Licia fosse un paese favoloso ed esotico.
Essi riappaiono solo nel canto V, l’aristia di Diomede, o meglio riappare Sarpedone, impegnato addirittura a rimproverare Ettore e a codificare e definire i compiti e i doveri dell’eroe, cioè il suo universo morale e etico. Indizio evidente della dimensione e vocazione intellettuale del personaggio. Si tratta di una scena non infrequente nell’Iliade, ma ad interpretarle vengono chiamati sempre guerrieri di rilievo.
Siamo nel momento in cui Ares incita le schiere troiane incalzate da Diomede, che ha ferito Enea e si è ritirato a malincuore di fronte ad Apollo. Sarpedone si rivolge ironicamente ad Ettore, rinfacciandogli di essere lui e i suoi fratelli eroi solo a parole, bravi a vantarsi, quando non c’è la pugna, di essere capaci di difendere anche da soli la città, ma poi, alla prova dei fatti, di  comportarsi tutti senza distinzione da vili. Insomma, sono eroi da osteria, vantoni. Non solo. Lasciano, inoltre, tutto il peso della guerra sugli alleati, in questo caso i Lici:

μες δ μαχμεσθ' ο πρ τ' πκουροι νειμεν.
κα γρ γν πκουρος ἐὼν μλα τηλθεν κω·
τηλο γρ Λυκη Ξνθῳ ἔπι δινεντι,
νθ' λοχν τε φλην λιπον κα νπιον υἱόν,
κδ δ κτματα πολλ, τὰ ἔλδεται ς κ' πιδευς.

E combattiamo noi, noi che qui siamo alleati!
Così, io che sono alleato,vengo da molto lontano:
è ben lontana la Licia, sul vorticoso Xanto,
dove ho lasciato la sposa e il figlio balbettante,
e le grandi ricchezze, che il misero agogna (V 477-81).

Ciononostante, mentre Ettore rimane fermo e irresoluto, Sarpedone non dimentica il suo dovere e sprona i Lici a combattere e lui stesso è pronto ad affrontare il pericolo, benché qui a Troia non abbia nulla da difendere. È tempo che Ettore si scuota, per evitare che la patria cada in mano al nemico (V 487- 489):

μ πως ς ψσι λνου λντε πανγρου
νδρσι δυσμενεσσιν λωρ κα κρμα γνησθε·
ο δ τχ' κπρσουσ' ε ναιομνην πλιν μν.

Ah che – come presi fra le maglie di rete buona per tutto-
non diveniate bottino il bottino, la preda dei nemici:
essi l’atterreranno subito la vostra bella città!

Gli ricorda, quindi, che è compito del capo provvedere a rafforzare il morale  dei combattenti, giorno e notte (V 490-492):

σο δ χρ τδε πντα μλειν νκτς τε καὶ ἦμαρ
ρχος λισσομν τηλεκλειτν πικορων
νωλεμως χμεν

Tu queste cose le devi pensare giorno e notte,
e supplicare i capi degli alleati illustri
che durino senza cedere …

Sarpedone è lucido e consequenziale, sa bene quali sono i compiti del capo, perché ha studiato da re e in qualità di re è presente a Troia e per questo fa professione di fede guerriera e di lealtà. Ma sa anche che compito del guerriero, che non cessa di essere cittadino, è combattere per la patria. Sembra  che, benché alleato, anzi, forse proprio per questo, combatta per un ideale, la libertà della patria, per quale gli Achei, se vincitori a Troia, rappresentano quasi un pericolo. Non c’è solo l’invito a rispettare il codice eroico, ma anche a non dimenticare quello di difensore della patria, che non combatte solo per l’onore personale ma per salvare tutto ciò che dà senso alla sua esistenza. Cogliamo, quindi, una punta di patriottismo come elemento vivificante del valore guerriero personale e dei "valori" umani da difendere..
Ma il discorso è ancora più complesso, perché tocca  altri due punti degni di considerazione. Il primo è quello degli  affetti familiari, patrimonio sacro da coltivare e difendere (V 480); e in questo Sarpedone assomiglia molto all’Ettore dell’incontro con Andromaca. Il secondo punto, che mi sembra molto interessante, è una sorta di acuta  osservazione socio-economica, che sembra cogliere il malcontento sociale del dāmos della declinante civiltà micenea, del popolo, comunità territoriale e agricola (A. Mele, Il mondo omerico, in Storia e civiltà dei Greci I, 1978,  pp. 70-71),  ben diversa dal laós, legata, come  è, a differenza di quest’ultimo,  essenzialmente alla terra, che vive per lo più nella miseria, nei confronti delle ricchezze della classe dominante, detentrice di tutti i privilegi e della ricchezza:«
κδ δ κτματα πολλ, τὰ ἔλδεται ς κ' πιδευς»,«e le grandi ricchezze che il misero agogna». Egli giustificherà, vedremo fra poco, il possesso di queste ricchezze, che sono il veicolo perché un uomo possa essere veramente ólbios, felice e fortunato, ma sa anche che la sperequazione esiste e crea invidia. Ettore non può non essere colpito dalla giustezza di queste osservazioni. Poi Sarpedone compie il suo dovere, uccide Tlépolemo, figlio di Eracle.
A proposito di questo duello, è bene ricordare che il "duello verbale" che precede lo scontro fisico è una scena tipica (Arendt 1930) ed è stato considerato un esempio significativo dell’uso agonistico della parola, connesso in qualche misura con la valenza magica della stessa (W.J. Org, Oralità e scrittura. La tecnologia della parola, Bologna 1986; cfr. F. Bertolini, Società di trasmissione orale: mito e folclore in Lo spazio letterario della Grecia antica, I 1 Roma 1992,   pp.47-75). Non per niente le parole (épea) in Omero sono pteróenta, più che "alate", "piumate", come la freccia che raggiunge il bersaglio. Inizia Tlepólemo, che ovviamente provoca l’avversario e ne sminuisce il valore e il rango di guerriero, per batterlo psicologicamente prima che fisicamente. Brandisce la parola come un’asta, per abbattere il nemico:

Sarpedone, consigliere di Lici, chi ti costringe
a nasconderti qui, tu che non sai la lotta?
Falsamente seme di Zeus egìoco ti dicono:
molto al di sotto tu sei di quegli uomini
che nacquero da Zeus al tempo degli antichi.
Quanta invece fu- dicono-  la possanza d’un Eracle,
il padre mio, audace consiglio-, cuor di leone!
Venne egli qui un tempo, per i cavalli di Laomedonte,
solo con sei navi e con pochi guerrieri,
e la città di Ilio atterrò, ne fece deserte le strade.
Ma tu hai cuore vile, così la tua gente viene meno;
ah non penso  che tu per dar sostegno ai Troiani
sia venuto di Licia, se anche sei molto forte,
ma per passare, ucciso da me, le soglie dell’Ade (V 633-639; 643-646)

È veramente la prima mossa dello scontro. La risposta di Sarpedone è  da una parte riflessiva dall’altra altrettanto dura e perentoria e non lascia scampo a Tlepólemo, che, si potrebbe dire, è già morto prima dello scontro:

Tlepolemo, sì, l’eroe distrusse Ilio sacra,
per la pazzia di un uomo, di Laomedonte superbo,
che lui, benefattore, rimproverò malamente
r non gli diede i cavalli, per cui veniva da lungi.
A te però predico che qui la morte e la Moira nera
Verranno dalla mia mano e, ucciso dalla mia lancia,
darai a me la gloria, all’Ade dai bei cavalli la vita (V 648-654).

E infatti Tlepólemo, malgrado l’irruenza e la iattanza dell’attacco verbale, pur avendo ferito Sarpédone alla coscia (V 660), soccombe.  Sarpédone viene  portato fuori quasi esanime dalla mischia da Ettore (V 658-695). Nel duello verbale i due eroi hanno in fondo la stessa visone della vita, confermano il loro statuto eroico, riconoscono i fondamenti della loro etica, appartengono alla stessa comunità di eroi, sebbene militino in due campi opposti. Tuttavia Sarpédone si distingue perché di fronte all’osservazione sprezzante di Tlepólemo che Eracle, ben superiore a Sarpédone,
(ma forse non riflette bene che sta sminuendo e  anche tutti gli Achei  se stesso , benché Eracle sia suo padre e dalla tradizione riconosciuto il più grande degli eroi) ha distrutto Troia, ammette in maniera equilibrata le ragioni di Eracle e la slealtà di Laomedonte, dimostrando di saper sempre discernere il giusto dal’ingiusto, ciò che è moralmente corretto e ciò che non lo è.
Mentre Sarpédone giace ferito, l’amico Glauco, il secondo dopo Sarpedone (XII 102), il guerriero senza macchia(XIV 425), e Diomede si trovano di fronte (VI 120-121). È una scena straordinaria, che connota la società eroica molto più di una lunga descrizione di battaglia. Arrivati vicini, prima di iniziare il duello, Diomede, anche qui secondo una regola preliminare del codice eroico, quello della presentazione, prende la parola per primo e chiede informazioni su chi sia il guerriero che gli sta di fronte, che stima, solo per il fatto che ha avuto il coraggio di affrontarlo (VI 123-127). Gli preme sapere se sia un mortale o un immortale, perché non vuole combattere contro un dio per rimediarne solo guai. E a giustificazione, facendo sfoggio di cultura mitologica, cioè storica, ricorda la vicenda di Licurgo, che, per avere inseguito Dioniso e le sue nutrici, fu accecato da Zeus ed ebbe vita breve. Poi, con la consueta durezza, gli promette che se è un mortale lo ammazzerà subito (VI 142-143).
La risposta di Glauco è una superba prova oratoria. L’inizio è folgorante (VI 145-149):

Τυδεδη μεγθυμε τί ἢ γενεν ρεενεις;
οη περ φλλων γενε τοη δ καὶ ἀνδρν.
φλλα τ μν τ' νεμος χαμδις χει, λλα δ θ' λη
τηλεθωσα φει, αρος δ' πιγγνεται ρη·
ς νδρν γενεὴ ἣ μν φει δ' πολγει.

Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;
le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva,
fiorente le nutre al tempo della primavera;
così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua.

Il brano, celeberrimo, allarga lo sguardo universalmente su tutta l’umanità, rappresentando gli effetti dell’ inarrestabile scorrere del tempo  e l’ininterrotta successione delle generazioni umane. Sarà ripreso da Mimnermo (fr. 2W, 2 D 2, citato da Stobeo IV 34, 12) e utilizzato per caratterizzare la brevità della giovinezza, a cui segue un’unica triste alternativa, la vecchiaia o la morte. Generazioni di studenti liceali lo hanno letto e meditato.
Poi Glauco espone con orgoglio la sua genealogia, spaziando geograficamente dalla Licia alla Grecia continentale, tutto il mondo storicamente greco. Ricordo che a genealogia non è un ozioso esercizio di capacità verbali, ma è uno strumento per mettere, per così dire, ordine nel mondo. La "storia" comincia a Efira, «nella vallata di Argo che nutre cavalli», legata al nome della ninfa Efira, figlia di Oceano.Ma siamo anche in ambiente corinzio, in quanto, come sappiamo da Pausania II 1,1 «la terra corinzia è parte  della terra argiva».  È la patria dell’astuto Sisifo, figlio di Eolo. Fu il padre di Glauco, da cui nacque l’eroe "Bellerofonte perfetto". Il quale subì le insidie di Antèa, che invaghitasi di lui e non corrisposta, lo calunniò  presso il marito Preto, accusandolo di aver tentato di violarla. E Preto, non volendo ucciderlo personalmente lo inviò in Licia da suo suocero Iobate e:

                           πρεν δ' γε σματα λυγρ
γρψας ν πνακι πτυκτ θυμοφθρα πολλά,
δεξαι δ' νγειν πενθερῷ ὄφρ' πλοιτο.

                                   … gli diede segni funesti,
molte parole di morte tracciando su duplice tavola,
e ingiunse, per farlo perire, che la mostrasse al suocero.
(VI  167-169)

Iobate, però, dopo aver letto la tavoletta (e qui nasce il problema, non ancora pienamente risolto,  se Omero e gli eroi dell’Iliade conoscessero la scrittura), non se la sentì di ucciderlo, ma lo sottopose a prove difficilissime, nella speranza che vi perdesse la vita. Ma Bellerofonte uccise  Chimera, poi vinse i Solimi e le Amazzoni (VI 190). Iobate si accorse che era di stirpe divina e gli diede in moglie la figlia, da cui nacquero tre figli: Isandro, Ippoloco, Laodamia. Da Laodamia, unitasi a Zeus, nacque Sarpédone, Isandro fu ucciso da Ares, da Ippoloco nacque lui.  È dunque cugino di Sarpedone e il padre lo inviò a Troia con la stessa raccomandazione di Peleo ad Achille:

αἰὲν ριστεειν καὶ ὑπεροχον μμεναι λλων,
μηδ γνος πατρων ασχυνμεν, ο μγ' ριστοι
ν τ' ᾿Εφρῃ ἐγνοντο καὶ ἐν Λυκίῃ ερείῃ.

Chi’io sempre fossi fra gli altri il migliore e il più bravo,
non facessi vergogna alla stirpe dei padri , che furono
fortissimi a Efira e nella vasta Licia (VI 206-208).

A questo magnifico discorso Diomede gioisce e risponde con gentilezza Glauco, perché scopre che Glauco è per lui ospite antico. Il rude eroe attinge ai ricordi dell’infanzia:

Ονες γρ ποτε δος μμονα Βελλεροφντην
ξενισ' ν μεγροισιν εκοσιν ματ' ρξας·
ο δ καὶ ἀλλλοισι προν ξεινϊα καλά·

Oineo glorioso, una volta, Bellerofonte senza macchia,
ospitò nel palazzo, lo tenne con sé venti giorni;
essi si fecero splendidi doni ospitali (VI 215-218)

Sono, quindi, per proprietà transitiva, ospiti antichi:«τ νν σο μν γ ξενος φλος Αργεϊ μσσ/  εμ, σ δ' ν Λυκίῃ ὅτε κεν τν δμον κωμαι», « ed ecco, che un ospite grato ora per te, laggiù nell’Argolide/io sono, e tu nella Licia, quand’io giungessi a quel popolo» (VI  224-225). L’unica cosa che possono fare è scambiarsi le armi, in nome di quell’antico inviolabile legame. E così fanno. Omero non può fare a meno di osservare umoristicamente che Zeus tolse il senno a Glauco, che scambiò le sue armi d’oro del valore di cento buoi con quelle di ferro di Diomede del valore di solo nove. Scena memorabile, ripeto.
Di  passaggio osservo che i Siracusani apprendono da questo incontro che Glauco, principe di Licia, è una sorta di loro concittadino, perché del sangue di Bellerofonte, di cui anche Gorgò e Prassinoa nelle Siracusane di Teocrito si sentono discendenti. E di Bellerofonte erano anche discendenti Archia e gli Efirei che con lui vennero a fondare Siracusa, quattrocentocinquanta anni dopo questo  memorabile incontro.
Troviamo i due cugini insieme nel canto XII 310 ss. Sarpédone espone lucidamente a Glauco, che li conosce bene, i  fondamenti dell’etica guerriera, che fra l’altro, giustificano i  grandi privilegi morali e materiali di cui godono in patria:

Γλακε τί ἢ δ νϊ τετιμμεσθα μλιστα
δρ τε κρασν τε δ πλεοις δεπεσσιν
ν Λυκίῃ, πντες δ θεος ς εσορωσι,
κα τμενος νεμμεσθα μγα Ξνθοιο παρ' χθας
καλν φυταλις καὶ ἀρορης πυροφροιο;
τ νν χρ Λυκοισι μτα πρτοισιν ἐόντας
στμεν δ μχης καυστερης ντιβολσαι,
φρ τις δ' επ Λυκων πκα θωρηκτων·
ο μν κλεες Λυκην κτα κοιρανουσιν
μτεροι βασιλες, δουσ τε πονα μλα  
ονν τ' ξαιτον μελιηδα· λλ' ρα καὶ ἲς
σθλή, ἐπε Λυκοισι μτα πρτοισι μχονται.

Glauco, perché noi due siamo tanto onorati
con seggi, con carni,  con coppe numerose
in Licia e tutti guardano a noi come dèi,
e gran tenuta abitiamo in riva allo Xanto,
bella d’alberata  e arativo ricco di grano?
Ora bisogna che noi, se siamo  fra i primi dei Lici,
stiamo saldi e affrontiamo la battaglia bruciante,
perché qualcuno dei Lici forti corazze dica così:
"Non ingloriosi davvero comandano in Licia
i re nostri e grasse greggi si mangiano
e vino scelto, dolce come il miele; ma han forza
grande, perché tra i primi dei Lici combattono!»(Il. XII 310-321)

Secondo quest’etica l’eroe dimostra il suo valore schierandosi fra i combattenti delle prime linee e affrontando con sprezzo del pericolo il primo impatto delle schiere nemiche. Questo privilegio rappresenta l’onore e il privilegio del valoroso e  gli assicura il rispetto dei subalterni.

Sarpédone  sembra essere rimasto  nell’ambito della sua classe sociale di appartenenza e aver detto cose condivise nell’ambiente, ma a un certo punto in realtà  ha anche fatto un’analisi sociologica delle strutture sociali piramidali della civiltà micenea. Ciò indica che è un re attento e un acuto indagatore della realtà che lo circonda. Poi aggiunge una riflessione esistenziale di carattere generale sulla necessità della morte e il comune destino degli uomini:

ππον ε μν γρ πλεμον περ τνδε φυγντε
αε δ μλλοιμεν γρω τ' θαντω τε
σσεσθ', οτ κεν ατς ν πρτοισι μαχομην
οτ κε σ στλλοιμι μχην ς κυδινειραν·
νν δ' μπης γρ κρες φεστσιν θαντοιο
μυραι, ς οκ στι φυγεν βροτν οδ' παλξαι,
ομεν ἠέ τ εχος ρξομεν ἠέ τις μν.

O amico, se noi ora, fuggendo a questa battaglia,
dovessimo vivere sempre, senza vecchiezza né morte,
io certo allora non lotterei fra i campioni,
non spingerei te alla guerra gloria dei forti;
ma di continuo ci stanno intorno Chere di morte
innumerevoli, né può sfuggirle o evitarle il mortale.
Andiamo: o noi daremo gloria a qualcuno o a noi quello (XII 322-328).

Sarpédone qui fa una considerazione  generale sulla sorte dell’uomo e comprendiamo che egli ha riflettuto sulla precarietà e sulla brevità della vita umana. È una riflessione che attraversa tutta la cultura ellenica, dai lirici ai tragici. Certo, sono idee  comuni e condivise, ma insieme alle riflessioni precedenti creano le basi di un pensiero e di una visione della vita che il poeta vuole affidare a Sarpedone, poiché ben si addicono alla sua personalità.

Bella prova di riflessione per un guerriero, che mette in gioco la sua vita e a salvaguardia dell’onore e della gloria, che sono tutto per lui, è disposto a fare sino in fondo il suo dovere. E Sarpédone lo fa bene, perché raggiunta la palizzata del campo acheo:

Σαρπηδν δ' ρ' παλξιν λν χερσ στιβαρσιν
λχ', δ' σπετο πσα διαμπερς, ατρ περθε
τεχος γυμνθη, πολεσσι δ θκε κλευθον.

E Sarpedone, afferrando con le mani pesanti  il riparo,
lo tirò, e venne via tutto intero, di sopra
rimase nudo il muro e dava a molti passaggio
(XII 397-399)

Il destino di Sarpedone si compie quando sul campo di battaglia incontra Patroclo e Zeus stesso, suo padre, si rende conto di non poterlo aiutare.  Era, la grande nemica, gli concede solo le estreme esequie in Licia:

ατρ πν δ τν γε λπ ψυχ τε κα αἰών,
πμπειν μιν θνατν τε φρειν κα νδυμον πνον
ες κε δ Λυκης ερεης δμον κωνται,
νθά ἑ ταρχσουσι κασγνητο τε ται τε
τμβ τε στλ τε· τ γρ γρας στ θανντων.

E appena il respiro l’abbia lascato e la vita,
manda la Morte a prenderlo e il Sonno soave,
che la contrada dell’ampia Licia  raggiungano;
e là l’onoreranno i fratelli e i compagni
di tomba e di stele: questo è l’onore dei morti(XVI 453-457).

Colpito da Patroclo stramazza e cade come una quercia o un pioppo. Moribondo, chiama Glauco e lo incita a  battersi per impedire che gli Achei si impadroniscano del corpo, anche in questo caso ricordandogli i fondamenti della loro etica e i legami di sangue. Mentre così dice: «… τλος θαντοιο  κλυψεν …/ ὃ δ λξ ν στθεσι βανων / …ἐκ χρος λκε δρυ…/  τοο δ' μα ψυχν τε καὶ ἔγχεος ξρυσ' αχμν. « … La morte l’avvolse … e Patroclo col piede sul petto … / divelse l’asta dal corpo,/ così strappò insieme la vita e la punta dell’asta (XIV 503-505). Così muore Sarpédone "rocca della città", per quanto straniero, come riconoscono i Teucri stessi (XVI 549-550).
Profondo dolore penetra nel cuore di Glauco, che prega Apollo di guarirlo dalla ferita di freccia infertagli da Teucro ( XII 387-389), per poter lottare con i Lici per il cadavere di Sarpédone. Guarito dal dio, esorta i compagni e rimprovera aspramente Ettore, quasi negli stessi termini in cui  già l’ha fatto Sarpédone, ma aggiungendo il  particolare importante del senso di giustizia con cui  Sarpedone esercitava  il potere in Licia:

Εκτορ νν δ πγχυ λελασμνος ες πικορων,

ο σθεν ενεκα τλε φλων κα πατρδος αης
θυμν ποφθινθουσι· σ δ' οκ θλεις παμνειν.
κεται Σαρπηδν Λυκων γς σπιστων,
ς Λυκην ερυτο δκσ τε κα σθνεϊ ᾧ·
τν δ' π Πατρκλ δμασ' γχεϊ χλκεος Αρης.

Ettore, del tutto dimentichi gli alleati,
che per te dalla patria, dai loro amici lontano
perdon la vita, e tu non vuoi difenderli.
È in terra Sarpedone, capo dei Lici armati di scudo,
che salda faceva la Licia, con la sua forza e giustizia:
il bronzeo Ares l’ha ucciso sotto il braccio di Patroclo (XVI 538-543).

Il riferimento al particolare delle giustizia, a cui l’eroe si attiene nell’esercizio dl potere regale, completa la figura di Sarpédone, anche se non pochi re omerici condividono con lui questa qualità.
Nella mischia Glauco compie il suo dovere e uccide un guerriero acheo (XVI 593), come ha già fatto  a VI 13. Ma gli Achei hanno la meglio.
Glauco ha la vocazione di richiamare all’ordine e infatti, nel canto XVII, dopo che Ettore ha ucciso Patroclo, lo  troviamo impegnato rimproverare ancora una volta l’eroe troiano che, incalzato da Aiace, balza sul carro e abbandona il corpo di Patroclo che sta trascinando (XVII 140 ss.). Il rimprovero è aspro e riprende osservazioni già  fatte all’eroe dallo stesso Glauco e da Sarpédone. Gli rinfaccia la vigliaccheria di cui da prova, in contrasto con la bellezza dell’aspetto, mentre nell’eroe omerico la bellezza fisica non si disgiunge dal valore, e, quando questo avviene, come in Paride, la contraddizione è fieramente rampognata. Glauco, quindi,  fa  leva sul principio di non  contraddizione fra aspetto fisico e qualità morali  fondamentale nell’Iliade. Anche in questo caso è interprete corretto dell’ ortodossia eroica. L’aureola dell’eroe, dunque, non basta ad Ettore, perché, se vuole riprendersi il cadavere di Patroclo, deve battersi e non fare come ha fatto con quello di Sarpédone, che ha lasciato al nemico. Poiché a questo punto i Lici possono anche tornarsene in patria e allora Troia è perduta. Ma Glauco non vuole questo! Solo che i Teucri abbiano il coraggio di chi si batte per la patria:

οἷόν τ' νδρας σρχεται ο περ πτρης
νδρσι δυσμενεσσι πνον κα δριν θεντο

…com’entra negli uomini che per la patria
ingaggiano contro i nemici lotta e travaglio (XVII 157-158)


allora si potrebbe strappare agli Achei il corpo di Patroclo e scambiarlo con quello di Sarpedone. Ma purtroppo Ettore ha paura di Aiace, temendone la forza. Affiora ancora  il concetto di patriottismo,cioè l’esaltazione del guerriero che fa esercizio del valore per la salvezza comune, che quasi preannuncia una nuova etica guerriera, quella di Tirteo.
Ettore si rammarica, perché fino a quel momento lo ha considerato  per senno al di sopra«di quanti vivono in Licia zolla feconda» (XVII 172), ma è costretto a ricredersi. Comunque, gli chiarisce il motivo della sua incertezza: niente gli fa paura, ma «il volere di Zeus egioco è sempre il più forte» (XVII 176), perché «anche un uomo gagliardo può mettere in fuga e gli nega  vittoria/ facilmente, altre volte lo spinge egli stesso a combattere» (XVII177-178). Ricordiamo che è una considerazione che fa anche Diomede. Ettore, comunque, lo stima e  lo invita a essere testimone del suo valore.
Dopo XVII 216 non abbiamo più notizie di Glauco. Il lettore spera che si sia salvato, che sia tornato in patria, abbia avuto figli e abbia visto i figli dei figli, per morire vecchio, raccontando le sue imprese. Ma, purtroppo, non è così. Perché in un poema del Ciclo, l’Iliupersis (La distruzione di Ilio), di Arctino di Mileto, egli cade nella mischia intorno al cadavere di Achille (Apoll. Ep. 5, 4). E Quinto Smirneo, un tardo continuatore di Omero, si incarica in una lunga scena (III 243-286) di descriverci la sua morte per mano di Aiace Telamonio: egli cade sul corpo di Achille ed è Enea che strappa il suo cadavere agli Achei e lo consegna ai compagni perché lo portino a Troia:

᾿Αμφ δ ο κρατερς πις ᾿Αγχσαο
πολλ πονησμενος σν ρηιφλοις τροισιν
ερυσεν ς Τρας καὶ ἐς ᾿Ιλου ερν στυ
δκε φρειν τροισι μγ' χνυμνοις περ θυμῷ.

Per lui il possente figlio di Anchise
a lungo battendosi con i compagni cari a Ares
lo trasse tra i Troiani e lo diede, perché lo portassero
nella sacra città di Ilio, ai compagni, costernati nel cuore (III 283-286).

Sempre da  Quinto (IV 1-13)  apprendiamo che i Troiani non lasciano Glauco senza compianto e lo cremano davanti alla città . Apollo in persona, però,  strappa il corpo alla fiamma  che  avvampa e lo affida ai venti veloci perché lo portino nella terra di Licia. E quelli lo depositano in una valle nel felice paese di Telandro e vi pongono sopra un masso indistruttibile. E le Ninfe fanno sgorgare sacra acqua di fiume perenne che da questo momento le generazioni degli uomini chiamano Glauco bella corrente:

… Νμφαι δ περβλυσαν ερν δωρ
ενου ποταμοο τν εστι φλ' νθρπων
Γλακον πικλεουσιν ἐύρροον·

Le Ninfe fecero sgorgare sacra acqua
di fiume perenne, che d’allora le generazioni
degli uomini chiamano Glauco bella corrente (IV 9-11).
Il  poeta con l’aition, con la dotta spiegazione,  storicizza l’evento mitico e gli dà perennità nella durata della storia. Così Glauco si ricongiunge a Sarpédone, figlio di Zeus, che  i fratelli Sonno e Morte, sotto la guida di Apollo, hanno già trasportato in Licia, felice e favoloso paese.

 
 
 

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