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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni II
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

2^ fase

 
 
 

Sebastiano Amato  

 

Ma chi era veramente  Enea?
A proposito di alcuni volumi sull’eroe di recente pubblicati

 

Un giorno non determinato del’estate del 1948 - la testimonianza è del poeta stesso - Giorgio Caproni, trovandosi a Genova per una visita, incontrò per la prima Enea, figlio di Anchise. Se lo trovò davanti d’improvviso in Piazza Bandiera, circondata ancora dai palazzi distrutti dai bombardamenti alleati. Il gruppo marmoreo, opera di Parodi o forse con maggior probabilità del Baratta (1726), invece, non aveva, quasi miracolosamente, subito danni, se si eccettua un piede di Anchise un po’ sbocconcellato. La vista ebbe per il poeta un effetto stupefacente: da quel momento Enea, con il padre sulle spalle e il figlio Iulo per mano, sarebbe diventato il suo Enea, quasi il suo doppio. Il simbolo di un’umanità disorientata dalla tragedia della guerra, da un presente stravolto e degradato, "nel punto/ di estrema solitudine". Era, per il poeta, l’unico Enea possibile, «l’unico Enea veramente vivo nella sua solitudine e nella sua umanità. L’unico Enea, insomma, che meritava davvero un monumento in mezzo a una piazza, simbolo unico di tutta l’umanità moderna, in questo tempo in cui l’uomo è veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso di una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre questa non lo sostiene più, e con per la mano una speranza ancora troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento» (Noi, Enea, 1949 p. 79; cito da Caproni, Il mio Enea, a cura di F. Giannotti, pref. di A. Fo, postf. Di M. Bettini, Milano 2020; vd. anche A. Marcolongo, La lezione di Enea, Bari - Roma 2020, p. 5).
Era un Enea "meno arma che vir" molto diverso da quello che aveva studiato a scuola e da quello augusteo, e ancor di più da quello celebrato in dimensione fascista e provvidenzialmente imperialista nel 1930, in occasione del bimillenario della nascita, quando, sulla base soprattutto della grande profezia ex eventu  del VI libro dell’Eneide, si costruì il mito della predestinazione imperiale  dell’Italia.
Acquistava una nuova inattesa contemporaneità, dava senso alla storia recente e sottraeva il mondo alla proprietà esclusiva dei vivi, legandolo indissolubilmente a un passato remoto, ma non estinto, anzi vivo e operante.
Ma l’Enea di Caproni era il vero Enea o era semplicemente la proiezione dello spirito di Caproni stesso?
Possiamo affermarlo e negarlo con la stessa sicurezza, senza timore di sbagliare.  Enea, infatti, è anche quello di Caproni, senza cessare di essere quello di Omero e di Virgilio, e può essere altri ancora, appena adombrati fra le pieghe del mito e della poesia. Perché siamo di fronte a un personaggio non della storia, ma del mito, della poesia, generato da quello che, comunque, è un racconto allo stato fluido e aperto, un atto creativo che ci presenta un personaggio come potrebbe essere stato e potrebbe essere e non per quello che è stato. Quando si ricerca nelle vicende di un personaggio storico si procede per scarti alla ricerca del nucleo di verità, analizzando un personaggio mitico si procede in senso inverso per accumulo, con il risultato che tutte le versioni, antiche e recenti, sono perfettamente legittime e altrettanto vere, non esistendo nella cultura greco-romana nessuna autorità né divina né umana preposta a salvaguardare l’ortodossia e a sventare l’eresia, come invece accade nelle religioni monoteistiche, le religioni del libro, dove esiste una sola versione autorizzata (si veda in proposito M. Lentano, Enea. L’ultimo dei Troiani, il primo dei Romani, Roma 2020 passim). Ciò nonostante, essendo il fondamento della gigantesca costruzione ideologica del mondo romano, nella storia dell’Occidente Enea è "cosa salda" più dei personaggi storici. E, quindi, fa anche parte della storia dell’Italia e dell’Europa, del nostro vissuto, di quello che ora siamo; ed è legittimo indagarne la storia e investigarne i più reconditi segreti. Egli appartiene, infatti, anche alla categoria degli ecisti, dei fondatori di città, anche se la Città che il Fato gli aveva assegnato, Roma, non fu mai  fondata, né da lui né da suo figlio Ascanio-Iulo, sebbene sulla testa di quest’ultimo, mentre Troia bruciava,  fosse apparso l’apex del predestinato al potere regale (Aen. II 683), che fundebat lumen. La  fiamma, però,  lambiva innocua le tempie del bambino e  Servio, nel suo Commento all’Eneide, contestualizza col riferimento al pilleus, il berretto del flamen, cioè alla striscia di lana che si trovava alla sommità del berretto, precisando che ciò era stato stabilito per la prima volta da Ascanio ad Alba.
Non è un caso, quindi, che in questo 2020 siano stati pubblicati diversi volumi che appunto raccontano la sua storia e tentano di definirne lo status, che di necessità appare, nelle varie versioni mitiche e nelle varianti, multiforme ma non nel senso odissiaco. Il che ha comportato un nuovo interesse e nuovi studi sul poema del creatore di Enea, cioè di Virgilio, la cui versione (eroe omerico, poco in verità; eroe viaggiatore (post-omerico), diversissimo da Ulisse; ecista del mondo romano) è la sintesi suprema di tutte le possibili "vite" di Enea. Essa ha il suo punto di arrivo, non immediato, nella fondazione di Roma  e  di conseguenza nella  nascita del  suo impero ai tempi di Augusto; e l’una e l’altro esistevano, prova inconfutabile della veridicità, storica questa volta,  di un filone della tradizione. Ma questo non sarebbe bastato, perché molte altre varianti confluivano in questa direzione, la tradizione catoniana e  quella liviana, ad esempio, benché diversamente strutturate per alcune sottovarianti, ed altre ancora. La versione divenne canonica perché Virgilio è un grandissimo poeta, e questo non lo dobbiamo dimenticare.
Ma l’eroe, psicologicamente complesso, che ne usciva fuori, per quanto fondamentalmente coerente, era pur sempre un po’ proteiforme e talvolta un po’ contradditorio, come lo siamo gli uomini normali,  anche perché il poeta non era riuscito a dare l’ultima mano alla sua opera - e voleva che non fosse pubblicata -, sicché di esso  possiamo ancora oggi adombrare profili diversi, cogliere aspetti più aderenti alle sensibilità e alle esperienze  personali, o alle strategie politiche perseguite, come in realtà è stato fatto e come abbiamo brevemente accennato.
Così abbiamo l’Enea di Guidorizzi (Enea, lo straniero. Le origini di Roma, Milano 2020), che grecista e antropologo attento ai fatti culturali, sociali e istituzionali, da cogliere negli usi, nei costumi e nel vocabolario e nei simboli che li trasmettono, coglie in Enea,  fato profugus, benché principe e guerriero, la caratteristica dell’advena, dello straniero, per di più male accolto dalle popolazioni rozze e incolte del Latium vetus, dove alfine, sempre per volere cogente del Fato,  giunge e dove, dopo avere impiantato la sua stirpe e la cultura di cui era diventato nume tutelare, scomparirà sulle rive di un fiumiciattolo, assunto probabilmente in cielo, ma senza particolare gloria, tre secoli e mezzo prima almeno della fondazione di Roma. Una bella immersione nel Lazio antichissimo e nella sua cultura.
Ma abbiamo anche l’Enea della Marcolongo, sopra citata, che è in qualche maniera complementare all’Enea advena. L’autrice, in un testo ricco di sentimento  e a tratti sofferto, vede in Enea non l’eroe, ma l’antieroe, l’uomo che agisce " a missione", al quale dal Fato, cioè da una imperscrutabile Necessità superiore, è stato imposto un compito arduo e ingrato, mentre egli avrebbe preferito tornarsene a vivere tranquillo sull’Ida dove era nato (Vd. Inno Omerico V, Ad Afrodite) e dove la profezia di Poseidone in Omero lo vorrebbe far vivere (Iliade XX 307 -308) e qualche versione del mito lo riporta (cfr. Dionigi di Alicarnasso A.R. I 53, 4). La sua vita è, quindi, in tragico contrasto con le sue inclinazioni e preferenze, eppure obbedisce, forse facendo violenza a sé stesso, in questo molto assomigliando all’uomo dei nostri tempi, dilaniato dalle contraddizioni e dalle insicurezze, malgrado lo sfavillio delle luci, in questi momenti per il vero un po’ opache.
Nessuno gli ha detto in concreto che cosa fare, eppure lo fa e può scegliere solo il mezzo con cui realizzare l’imperativo ineludibile di fondare una grande città in un’altra terra, dove alfine sui uniranno quattro popoli: Dardani - Troiani, Latini, Greci, Etruschi, senza pretese di salvaguardare alcuna purezza razziale. Primo esempio di metropoli moderna, di melting-pot. Ed egli sceglie: la sua arma sarà la pietas, che implica il rispetto verso gli dei, i genitori e, soprattutto, i Penati, i numi tutelari che rivelano la sua origine, la sua identità e l cultura alla quel appartiene di cui è destinato ad essere l’eroe fondatore; ma denota anche il senso del dovere di chi ha uno scopo nel suo destino. E per realizzarlo agisce, sempre incerto e sempre solo, a dispetto delle  ascendenze divine,  cade e si rialza, perché questo sa fare e questo fa, oltre ogni sofferenza e prezzo da pagare. Egli sarà pius e pater, l’uomo del dopoguerra, quando bisogna ricostruire, dopo che un cataclisma ha distrutto tutte le nostre certezze, come l’Enea di Caproni. Egli crede e si rifugia nella sua missione, ma non perde la sua umanità. Una metamorfosi che lo porta molto lontano dagli eroi omerici, al cui statuto all’inizio apparteneva di diritto.
Ma si sa che nelle polisemiche diramazioni del mito, lasciate all’iniziativa dei mitografi e di poeti, spesso al servizio di qualcuno, principotto o dinasta locale  che voleva legittimare o nobilitare il suo potere e la sua dinastia contro le pretese degli avversari, già dai tempi di Omero o poco dopo, proprio nella Troade, si annidavano anche le voci discordanti, contrarie oppure alternative prima alla versione omerica. Ce ne furono poi di contrarie a quella canonica di Virgilio,  cioè antiromane in questo secondo caso, ma talvolta filo-romane e filo-imperiali. Non mancavano poi le varianti degli intellettuali greci  schierati contro il potere di Roma.  Queste varianti,  pur rimanendo ai margini, tuttavia continuavano ad operare e lo fecero con maggiore insistenza a partire dal IV secolo a. C., prima in ambiente greco, poi, a cominciare dal I sec. a. C., latino fino all’età del tardo impero romano, diciamo IV-V sec. d. C . Anche in questo caso spesso con motivazioni per lo più squisitamente politiche o di rivendicazione culturale ad opera di intellettuali greci, che insistevano soprattutto sulla figura di Enea, per celebrarla o screditarla. Versioni che furono riprese anche dai grandi commentatori di Virgilio, che annotarono puntualmente l’esistenza di queste varianti, di cui qualche traccia coglievano anche nell’Eneide.
Fra le molte varianti e sottovarianti, che hanno spesso il loro punto di origine in qualche accenno che compare nell’Iliade stessa, la più rischiosa per l’onore e la dignità  di Enea e del popolo di cui finì per essere il capostipite, è la versione che lo accusa di essere il proditor Troiae, il traditore di Troia e di Priamo, da solo o in accordo con Antenore (la cui vicenda il commentatore di Virgilio, Servio Danielino, ci ha diligentemente annotato e raccontato), il fondatore di Patavium, in quella che fu  Gallia Cisalpina, prima di essere Italia.
Di questa specifica variante della "biografia" di Enea, oltre che di tutte le altre, si occupa Mario Lentano nell’eccellente e solidissimo, oserei dire esaustivo, volume sopra ricordato, di cui ha dato anche notizia il 23 novembre scorso sul "Corriere della Sera" Paolo Mieli in un lungo articolo dal titolo da cronaca giudiziaria, Gravi indizi contro Enea. Secondo alcune fonti il mitico eroe avrebbe consegnato Troia agli Achei.
Questa versione o meglio questo insieme di versioni, legittime, ripetiamo, anche se un po’ diffamatorie e dietrologiche, come diremmo oggi, deriva da due notizie contenute in due passi dell’Iliade. Nel primo Deifobo, che cerca Enea per averne l’aiuto, lo trova lontano dalla linea del combattimento: … lo trovò in ultima fila/ fermo: era sempre irritato col nobile Priamo,/ che nonostante il suo valore non lo onorava (XIII 455-456). Nel secondo Achille, nel momento in cui si stanno apprestando a un duello che non avverrà, lo provoca e lo schernisce per fiaccarne il morale e alla fine lo provoca: … Ma anche se tu mi uccidessi,/ non per questo Priamo porrebbe lo scettro/ nelle tue mani: ha figli, ed è sano di mente (XX 181-183).
Omero non dice che Enea è un traditore, ma ce n’era abbastanza perché, anche in connessione con i fatti racconti nella Piccola Iliade e nella Presa di Ilio potesse essere sviluppata in favore di qualche piccolo dinasta della Troade una narrazione che facesse di Enea un traditore per motivi di attrito dinastico fra casa regnante e ramo cadetto. Attrito  reso plausibile fra l’altro da un altro passo del XX libro in cui Posidone afferma che Enea deve essere salvato, perché adesso che il figlio di Crono ha preso in odio la stirpe di Priamo,/ il fortissimo Enea regnerà sui Troiani/ e i figli dei suoi figli e quelli che verranno dopo (vv. 306-308). Versi che, però, se confermano un fatto, scagionano Enea dall’accusa di essere un traditore. Il lettore si accorge come la materia sia fluida e cangiante, ricca di sorprese e di imprevisti. Comunque il caso era intrigante e il filone avrà fortuna nei secoli.
La prima attestazione chiara del tradimento di Enea, che diventa uno degli Achei, per odio verso Paride, però,  la troviamo in Menecrate di Xanto (la cui datazione è disperante tra V e II sec. a. C.), citato da Dionigi di Alicarnasso che ne contesta ovviamente la ricostruzione di fatti. Potrebbe trattarsi di una versione elaborata in occasione del conflitto tra i Romani e Pirro, per infamare i primi  come discendenti di un traditore. Potrebbe essere ma non è né certo né sicuro. Un accenno sembrerebbe potersi cogliere nel perduto Laocoonte di Soflocle. In breve. Ritroviamo questa variante nel mondo latino, in un certo Lutazio, in Sisenna, forse anche in Orazio nel Carmen Saeculare, nell’Eneide stessa nelle parole di Turno nel XII libro, prima del duello per lui fatale, passa per Tertulliano, che la utilizza con entusiasmo. Viene annotata anche dai commentatori tardo-antichi, Servio e Tiberio Claudio Donato, che, presupponendola, consigliava agli aspiranti avvocati di leggere il II dell’Eneide, in quanto modello perfetto di arringa per difendere un cliente da un’accusa infamante. Il punto più basso Enea lo tocca con le opere di Darete Frigio e Ditti Cretese, due autori sotto ogni aspetto problematici, anche cronologicamente. Il primo si proclama testimone oculare degli eventi dalla parte degli sconfitti e abbraccia più di ogni altro la tesi del tradimento di Antenore, Polidamante e Enea, per motivi chiaramente politici e militari. Il secondo, invece, si proclama testimone in quanto scudiero di Idomeneo. Nel suo Diario il tradimento è rubricato come resa programmata e assembleare per impulso di Antenore; a Enea, sua spalla, tocca fondare non Roma, ma la insignificante Corcira nigra nell’Adriatico.
Alle versioni confluite in Darete e Ditti si oppone Dione di Prusa, traI e II sec. d. C., con la sua XI orazione, Il discorso troiano, in cui dimostra che la guerra fu vinta dai Troiani e che Ettore, vivo e vegeto, invia Enea alla conquista dell’Italia, sicché i Dardani con Enea in Occidente e i Troiani con Ettore in Oriente dominano il mondo, prefigurazione dell’impero di Roma. Il punto più alto della gloria di Enea. Non manca che l’imbarazzo della scelta. Di fronte a queste versioni noi dobbiamo porci nello stesso atteggiamento che di fronte alle altre: accettare e capire senza giudizi morali sempre fuorvianti.
In altri termini, a Enea non può e non deve  capitare quello che è occorso a Giuda - non sembri il paragone empio o eretico - bollato come traditore, anche se appare chiaro che fu per necessità cioè volontà di Dio che fece quello che fece, perché Cristo salisse sulla croce, riscattasse il genere umano e le scripturae adimplerentur. Giuda potrebbe essere, invece, il discepolo prediletto, quello a cui viene chiesto il sacrificio più grande: tradire il Maestro che ben lo sa. E infatti in questa luce di discepolo prediletto, scelto per rendere possibile la passione di Cristo, è visto nel vangelo gnostico in lingua copta scoperto di recente in Egitto, bollato come apocrifo ed eretico. Per Enea non si dà eresia, per fortuna, solo una serie di narrazioni, tutte legittime e tutte affascinanti,  che hanno modellato la nostra cultura e ancora catturano il nostro immaginario. Una di esse ha ricevuto il soffio animatore della grande poesia, che l’ha avviata verso il futuro, che  era poi il futuro del mondo.


 
 
 

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