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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni I
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

 
 
 

Sebastiano Amato

 


Dall’odierna pandemia alla peste di Atene
I Parte

 


    Siamo chiusi in casa e restiamo quasi interdetti mentre ascoltiamo le funeste imprese del Coronavirus, che, invisibile e subdolo, partendo dalle profondità della Cina e camminando sulle ali dei nostri aerei, sulle ruote delle nostre auto e  sulle nostre  gambe, sgretola e sconvolge le nostre granitiche certezze di uomini "virtuali"  e "globalizzati" che riteniamo  il nostro mondo anch’esso virtualmente strutturato e di conseguenza asettico e inattaccabile.
   Ci stiamo accorgendo, quasi con stizza nei confronti dell’ignoto Destino che aleggia su di noi,  che stiamo pagando un pesante tributo a causa della presuntuosità generale, della nostra hybris intellettuale e perciò della nostra impreparazione operativa, figlia della mancanza di riflessione su quanto lontano fossimo dalla realtà nel momento in cui abbiamo cominciato a pensare che la nostra Terra, fra l’altro così poco amata e difesa, avesse terminato anzitempo il ciclo della sua evoluzione e si fosse consegnata inerte e sterile a noi, incauti inquilini, impegnati a vivere in un abbraccio talvolta irrazionale e funesto con i nostri meravigliosi e inebrianti mezzi "virtuali".
    Non era e non è così. Perché invece è bastato un microscopico virus, (è latino ed è attestato sin da Virgilio, perché molti italiani cominciano a pronunziarlo vairus?) , prima sconosciuto, ed ora immortalato con una bella sigla Covid 19 e ancor di più da una spettacolare immagine che ne fissa ed esalta l’affascinante struttura e l’insidiosa bellezza. Anch’esso opera e frutto della Natura, di cui noi, onnipotenti e onniscienti, siamo tanto dimentichi.
    Così, di colpo, spaventati e sgomenti, riscopriamo i nostri limiti: la pandemía o forse questa volta la pankósmia nosos (ora tocca al greco, pur in un misto di antico e moderno) minaccia di distruggere le sovrastrutture della nostra società, ci mette tutti sullo stesso piano, annulla le nostre certezze e per di più ne manda democraticamente molti all’altro mondo ( ricordiamolo, anche la peste manzoniana si comportava così), mentre increduli attendiamo dalla scienza e dai ricercatori, ora invocati e prima negletti, la scoperta e l’approntamento rapido di un rimedio salvifico, che anche questa volta ci permetta di cavarcela e di sopravvivere.
     Chiuso anch’io in casa, escluse brevi escursioni in campagna per accudire ai miei fedeli cani, immerso in molte elucubrazioni, data la mia professione e l’età, fra molte opzioni (avevo anche pensato all’ "asiatica" vissuta allegramente da studente di seconda liceale), non ho potuto fare a meno di ripensare al lontano passato, ahimè mai così vicino e presente. E ho pensato subito alla narrazione tucididea della peste di Atene, un testo e una realtà con i quali oggi torniamo ancora una volta a confrontarci. Ma subito si è insinuata subdola una rimembranza ammonitrice e quasi profetica  del nostro destino: la storia della cultura occidentale non comincia con Omero e Omero non apre l’Iliade con la descrizione della peste che decima i guerrieri achei che pugnano inutilmente in caccia di Elena da dieci anni sotto Troia? Era la punizione atroce di Phoibos per la hybris di Agamennone. Sebbene divinamente rappresentata dalle volanti divine "quadrella" del dio, che irato era sceso dall’Olimpo con l’arco e la faretra, si trattava nondimeno di un morbo pestilenziale e sordo ad ogni cura, una nósos sconosciuta, un loimós (peste) terrificante: la gente moriva e "le pire ardean igneo vapore" (volutamente la traduzione del Monti, attempata, dicono, ma un capolavoro). Questo è l’inizio della nostra cultura, ma poiché Omero è un poeta, lasciamolo in pace a flirtare, vecchio e cieco, con la sua Musa. Dunque Tucidide. Vediamo di che cosa si tratta.
  Accadde che all’inizio dell’estate del secondo anno (Ecatombeone-luglio 430-Sciroforione-giugno 429) della guerra che chiamiamo del Peloponneso, le armate spartane e alleate con i due terzi delle loro forze invasero per la seconda volta l’Attica, al comando di Archidamo figlio di Zeuxidamo, re dei Lacedemoni, e la devastarono (II, 47). Pochi giorni dopo l’invasione, che si protrasse per quaranta giorni, ad Atene, dove si erano rifugiate migliaia di persone con i loro animali, cominciò a svilupparsi la pestilenza (nósos), che già si era manifestata in molte località dell’Egeo e dell’Oriente mediterraneo, Ci si accorse ch si trattava di una affezione molto pericolosa e infatti lo storico dice che « non si ricordava che ci fosse stata da nessuna parte una peste (loimós) talmente estesa né una tale strage (pthorà) di uomini » (G. Donini).
     Il fatto grave era anche che i medici non la conoscevano, la curavano, per così dire con i protocolli e le medicine tradizionali, conosciuti ma inefficaci, si infettavano e morivano, sfortunati, allo stesso modo dei loro sfortunati pazienti. Il concetto centrale dello storico è che la novità della malattia e l’ignoranza incolpevole dei medici (ágnoia) impedivano agli stessi di intervenire efficacemente. E la medicina, senza conoscenza cioè senza epistéme, per dirla con Ippocrate, è impossibilitata a procedere (G. Pugliese Carratelli).
   Proprio come oggi il contagio veniva da lontano. Certo non si poté fare un’indagine epidemiologica e scoprire il paziente 1, ma sulla base dei "si dice" Tucidide crede di poter affermare con una certa sicurezza che esso prese avvio in Etiopia, nella parte al di là dell’Egitto, poi si diffuse in Egitto e in Libia e nella maggior parte dei territori dell’impero persiano.  Dato il sistema dei trasporti arrivò ad Atene per mare, con le navi da trasporto che vi giungevano da tutto il Mediterraneo e, quindi,  si manifestò d’un tratto al Pireo, il grande porto commerciale di Atene, il cuore dell’economia della città egemone della lega delio-attica.
     Il fatto che si sia manifestato all’improvviso – ma non poteva essere che così- fece pensare subito ad un untore: i Peloponnesiaci che avevano avvelenato i pozzi, di cui gli abitanti del Pireo si servivano, non essendovi state ancora costruite delle fontane (notevole informazione urbanistica di Tucidide). Poi velocemente e aggiungiamo noi inevitabilmente, attraverso le Lunghe Mura, fatte costruire da Pericle, per unire in sicurezza il Pireo ad Atene, arrivò nella città alta e a questo punto, data la densità della popolazione elevatissima, ben oltre i limiti naturali e il regime di promiscuità uomini-animali, con relativi problemi di sanità e di igiene generale e individuale, il tasso di mortalità si alzò in maniera esponenziale. Alla fine, quando terminò del tutto, nel 427-426, questa pestilenza avrebbe ammazzato, secondo i calcoli moderni, la metà almeno degli abitanti di Atene.
     Fatta questa premessa, una specie di anamnesi di tipo ippocrateo, Tucidide sceglie la strada da seguire, cioè la sua, quella dello storico (II 48,3), che non è né medico né profano, i quali – dice lo storico- ne potranno parlare, il primo secondo le sue specifiche conoscenze, il secondo sulla scorta della sua esperienza. Egli, invece, che non è affatto digiuno delle teorie di Ippocrate e che ha anche il vantaggio di essere stato contagiato e di essere guarito, prende su di sé il compito di raccontare con austero distacco e con la massima precisione in che modo la malattia si è manifestata e di mostrarne i sintomi, osservando i quali, caso mai scoppiasse un’altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in precedenza qualche cosa». Tucidide non si proclama medico ovviamente, ma la sua indagine è chiaramente orientata dalle dottrine ippocratiche, come  anche la sua storia per la verità .
    Egli costruisce un sistema di sintomi che consente eventualmente di mettere in moto un’indagine (historìa), una premessa, sulla scorta della quali  il medico specialista può fondare una retta diagnosi  ed una eventuale efficace terapia.
    Comincia, a questo punto, con il capitolo 49 del secondo libro, uno dei più celebri passi delle Storie di Tucidide, imitato fra gli altri da Diodoro Siculo, XIV 70,4-71, a proposito della pestilenza che colpì, per fortuna di Dionisio, i Cartaginesi che assediavano la nostra Siracusa,  e Procopio di Cesarea, Guerra persiana, II 18,1-22, ai tempi delle guerre di Giustiniano contro i Sasanidi. Ma di ciò, e anche di altro, considerato che abbiamo molti giorni a disposizione per lavorare in otio cum dignitate, parleremo nella prossima puntata.

 

 


Dall’odierna pandemia alla peste di Atene
II Parte


    Tucidide inizia il racconto con un’osservazione  che determina ed evidenzia subito la potenza del contagio: quell’anno sotto il profilo igienico-sanitario si presentava molto favorevole; e ne aggiunge subito un’altra, non meno importante, e cioè che le poche malattie manifestatesi furono eclissate dalla peste, nel senso che andavano a confluire in quel contagio. Il che significa che l’epidemia soverchiava le malattie croniche e stagionali, complicando il quadro clinico e portando i soggetti affetti a più rapida morte (II 49,1; 51,1). Le persone più deboli erano, quindi, quelle più a rischio.
Gli individui sani, invece, venivano colti da improvvise vampate di calore alla testa,  da arrossamenti e infiammazione agli occhi, mentre nelle parti interne«la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido» (49,2). Dopo questi primi sintomi, intervenivano lo starnuto e la raucedine, seguiti da forte tosse. Veniva anche interessata la bocca dello stomaco, con vomiti di bile e sofferenza generale. Nella maggior parte dei casi si manifestava il singhiozzo (lugxs kenē), secondo altri conati di vomito, senza esito, ma con convulsioni. I tempi intercorrenti fra i primi sintomi e i secondi erano vari.
    La parte esterna del corpo non rivelava temperature molto alte, ma la pelle assumeva un colore rossastro con eruzione di piccole pustole e di ulcere. All’interno i malati erano tormentati da bruciori  e non sopportavano nessuna veste, per quanto leggera, e spesso si precipitavano, senza alcun risultato, alle cisterne in preda ad una sete irresistibile. Pur affetti da insonnia, non mostravano evidente deperimento corporeo. La morte sopravveniva dopo 7-9 giorni dall’insorgenza dei sintomi, ma non morivano spossati. Se si superava questa fase, l’infiammazione andava ad interessare l’intestino con forti ulcerazioni  e diarrea violenta. Questa volta morivano sfiniti dalla debolezza in conseguenza anche della disidratazione, possiamo aggiungere.
    L’impressione dello storico è che il male procedesse dall’alto verso il basso (49,7). Dopo avere interessato la testa dice, infatti, che arrivava fino alle estremità (organi sessuali e punte delle mani e dei piedi) e questa modalità di diffusione  poteva essere indizio di essa. Alcuni sopravvissero, ma con la perdita di queste  parti, alcuni perdendo gli occhi o rimanendo colpiti da amnesia totale. Il giudizio dello storico è che l’epidemia si rivelò in complesso superiore alla capacità della natura umana (50,1). Poi Tucidide aggiunge un particolare che risulta assai problematico: lo specifico della malattia era che gli animali, uccelli e mammiferi, che si nutrono di carne, non mangiavano i cadaveri insepolti o se ne mangiavano, morivano. L’osservazione era più facile con i cani (50, 2).
    Questo il quadro clinico complessivo del nósēma che lo storico credeva di poter tracciare, tralasciando altri sintomi insoliti; il problema era complicato dal fatto che i sintomi potevano variare da un individuo all’altro. Anche i rimedi, non essendovi né la penicillina né i tanti altri farmaci moderni, erano palliativi o forse farmaci che alleviavano qualche sintomo, e, fra l’altro, facevano un certo effetto su un paziente, ma non su un altro. In realtà non c’era alcuna diagnosi e non c’era alcuna medicina: morivano tutti, curati e non curati. Per di più la contagiosità era molto elevata e la malattia si trasmetteva da individuo a individuo e morivano, come le pecore (hōsper tà próbata), malati ed eventuali soccorritori (51,4).
    A questo punto Tucidide comincia ad analizzare l’impatto dell’epidemia sul corpo civico di Atene: allentamento e sfaldamento dei rapporti sociali. Molti rimanevano isolati e abbandonati e i pochi coraggiosi che andavano per aiutarli si contagiavano e morivano(51,5). Gli unici che mostravano compassione erano i guariti, quasi tranquilli, perché «il morbo non coglieva due volte la stessa persona in modo da ucciderla» (51,6). Avevano acquisito, come diciamo oggi, l’immunità e coltivavano la vana speranza che nessun’altra malattia li avrebbe uccisi.
    Il valori morali e sociali della polis furono travolti e Tucidide lo registra, da conservatore, con fine analisi psicologica e con severo giudizio. In quel mondo desolato nessun timore degli dei e nessuna legge aveva valore, il santo e il sacro non esistevano: l’imperativo era fare quello che prima non si poteva e vivere prima di morire.
    Ho lasciato per ultima un’osservazione,  per così dire, di carattere epidemiologico, seppure sempre a sfondo morale. Aggravò la pestilenza l’affollamento eccessivo dovuto ai profughi. Essi, per mancanza di una casa, vivendo in baracche soffocanti erano falcidiati dal contagio: i corpi rimanevano insepolti uno sull’altro, i malati gravi giravano per le strade spettrali e barcollanti in cerca d’acqua. I templi erano pieni di cadaveri e tutte le usanze funebri furono sconvolte, perché ciascuno faceva a modo suo Molti li cremavano sulle pire altrui, anticipando quelli che l’avevano allestita, altri gettavano i cadaveri su altri che stavano già bruciando e se ne andavano (52, 2).
Insomma, nella città la pestilenza segnò un periodo di anomía, di disprezzo delle leggi con grave stravolgimento morale e sociale della vita cittadina, con rischio addirittura della sopravvivenza della polis.
    La pestilenza durò tre anni. A III 87, 1, severo e impersonale, ma tragico nella sostanza, Tucidide ci informa che:« L’inverno seguente (427-426), la peste si abbatté per la seconda volta sugli Ateniesi: non era mai cessata completamente, ma c’era stata tuttavia un po’ di tregua. La seconda volta durò non meno di un anno, ma la prima volta la sua durata era stata di ben due anni, e così non vi fu nessun disastro che più di questo affliggesse gli Ateniesi e danneggiasse la loro potenza: morirono infatti non meno di 4.400 tra gli opliti arruolati, e non meno di trecento cavalieri, e un numero impossibile a determinarsi tra il resto delle truppe» (Donini).
    Il dato di morti è spaventoso, solo si pensi che 5.000 furono gli opliti ateniesi e   alleati inviati a Siracusa nell’estate del 415, ma il quadro diventa ancora più drammatico, se utilizziamo a completamento il dato offerto da II 58. Dice lo storico che nell’estate in cui scoppiò il contagio gli Ateniesi fecero una spedizione contro i  Calcidesi in Tracia e contro Potidea. Ma le operazioni vennero sospese per il sopraggiungere della peste, che seminò la strage nell’esercito ateniese, e Agnone fu costretto a tornare indietro con millecinquanta opliti su quattromila. Un tasso di mortalità apocalittico  del 74%.  Il tutto in quaranta giorni di campagna.
    I moderni calcolano che la mortalità generale in Atene fu tra 1/3 e i 2/3 della popolazione. Una media di almeno il  50% può essere in ipotesi accettabile e rappresenta una cifra spaventosa. Ancora nell’estate del 415 il crollo demografico, oligantrōpía la chiamavano i Greci, non permise agli Ateniesi di rinforzare più adeguatamente il corpo di spedizione per la campagna siciliana contro Siracusa.
Ma chi era l’agente patogeno, virus o batterio; responsabile di questa catastrofe? Non sono medico e, quindi, nascondendomi dietro Tucidide, ne parlerò come storico, per quel poco che il mio talento mi permette.
  Gli ateniesi non avevano né le conoscenze teoriche né i mezzi tecnici per identificarlo e poter giungere ad una diagnosi e neppure conoscenze chimiche e biologiche per approntare un eventuale principio attivo efficace. In realtà non avevano la più pallida idea di niente.
    I moderni, (istruttiva anche se divulgativa, la voce Peste di Atene in Wikipedia e in altri siti), molto più attrezzati degli antichi, sulla base dell’analisi dei sintomi descritti da Tucidide, e poi utilizzati, sulla scia di Tucidide, ma non senza qualche novità, da Lucrezio nel famosissimo passo che chiude il sesto e ultimo libro del De rerum natura, hanno tentato di identificare questo misterioso agente patogeno, ma i risultati non sono stati univoci, sicché esso è tuttora non unanimemente  riconosciuto e  rimane sostanzialmente sconosciuto, sebbene sia stato possibile avanzare  alcune ipotesi, plausibili tutte e alcune non molto diverse fra loro, di pari passo con l’evoluzione della microbiologia, virologia, batteriologia, infettivologia etc. (Morire al tempo di Atene, in Microbiologia Italia,  7 gennaio 2020).
    La malattia è stata per lungo tempo identificata come peste bubbonica, ma l’ipotesi non è stata mai considerata del tutto coerente con il quadro dei sintomi offerto da Tucidide. Sono state così formulate ipotesi alternative  più aderenti ai dati della "cartella clinica" tucididea, anche se anch’esse non scevre da obiezioni.
Le ipotesi più accreditate sono: tifo, febbre tifoide, vaiolo, morbillo, sindrome da shock tossico, antrace e infine ebola o febbre emorragica. Fra queste le più probabili sono: tifo, febbre tifoidea, ebola.
    Nel 1999 una conferenza dell’Università del Maryland è giunta alla conclusione che la malattia che uccise decine di migliaia di Ateniesi, fra cui Pericle e i suoi due figli, può essere stata il tifo esantematico o petecchiale. Questa opinione era stata già espressa da un grande filologo e  storico, A.W. Gomme   nel monumentale  An Historical Commentary on Thucydides, vol. VIII, Oxford 1981, a cui hanno collaborato  Andrewes e Dover,  e da A. Vlachos, Remarks on Thucidides, 1992, ed ha non pochi sostenitori anche oggi. L’ipotesi, infatti, è coerente con molti dei sintomi elencati da Tucidide, ma alcuni fanno notare che i drammatici esiti gastrointestinali descritti dallo storico sono assenti nel tifo.
    Intanto veniva battuta la via dell’analisi del materiale genico: il prof. Manolis Papagrigorakis dell’Università di Atene, con Ch.Yapijakis, Ph. Synodinos e l’archeologa E. Baziotopoulou-Vavlani, esaminando il DNA di alcuni denti recuperati in occasione della scoperta una fossa comune e di mille tombe al Ceramico di Atene, risalenti al periodo 430-426, proprio quello della peste, ha trovato delle sequenze simili a quelle provocate dalla febbre tifoidea:«In conclusion, the results of this study incriminates typhoid fever as a probable cause of the Plague of Athens» (DNA examination  of dental pulp…in "International Journal of Infectious Diseases", 10,3, pp. 206-214). Anche questa conclusione, che a me sembra non distante dalla precedente, ha trovato oppositori, che hanno evidenziato sia difetti metodologici sia qualche contrasto con i dati tucididei (animali che mangiano le carni e muoiono)
    Una ricerca del prof. Powel Kazanjian, a cui possiamo aggiungere P. E Olson, C.S. Hames, A. S. Benenson e En. Genovese, utilizzando anche il testo di Lucrezio, è arrivata alla conclusione, trattandosi fra l’altro di contagio proveniente dall’Africa,  che si possa trattare di ebola. Non mancano obiezioni anche a questa conclusione.
    Nessuna di queste identificazioni è, dunque, sicura, in quanto - dicono gli esperti- non a fondo verificabile, perché è anche possibile che la peste sia stata causata da un agente che non esiste più o ha subito modificazioni nel tempo e perché i sintomi di una malattia nota possono essere mutati da allora a oggi. Inoltre l’affollamento può avere causato l’insorgere di altre malattie infettive, come già Tucidide aveva intuito. Certo, non siamo molto lontano dalla verità, ma è possibile che l’identità di questo agente rimanga per sempre sconosciuta. Oggi il Coronavirus lo abbiamo identificato subito e forse lo sconfiggeremo presto, ma fra qualche mese o anno, ripensando a quello che è accaduto, dovremo ammettere che gli attacchi della Natura e della nostra Terra, che ogni tanto si riprendono il loro spazio, sono sempre pericolosi. Terremoti e alluvioni insegnino.

 

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