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Ricordo di Paolo Greco

La Società oggi
 
 


Ricordo di Paolo Greco

 
 
 

Sebastiano Amato  

 

Ci eravamo sentiti pochissimi giorni fa, ambedue non in splendide condizioni, e dopo un breve scambio di notizie e  dopo essersi informato se aveva pagato la quota annuale di Socio della Società Siracusana di Storia Patria  e aver ricevuto risposta positiva, ci eravamo lasciati con quello che da un po’ di tempo era il solito, anche se stavolta non tanto convinto, commiato: «Ci vediamo presto». «Appena il tempo migliora, salgo su a Palazzolo, faccio io.» «Ti aspetto, Presidente, - mi rispose - celiando». Un augurio, un voto, una promessa, una speranza, un’ultima espressione della volontà di continuare a esserci, di non alzare bandiera bianca? Non lo so.  Così chiudemmo quell’ultima conversazione. Ora, a pochissimi giorni di distanza, in quel "Ci vediamo presto", detto senza illusioni e senza rimpianti,  mi accorgo che c’era  tutto il senso della nostra grande amicizia.
Non è che non me l’aspettassi, perché mi rendevo conto che la situazione era precaria; la notizia, però, come sempre, sebbene attesa, è stata lo stesso dirompente e conclude un rapporto umano sincero e autentico  e una fondamentale e significativa  esperienza culturale e intellettuale.
Il tempo, oggi venticinque aprile del 2021, è migliorato molto, il sole primaverile, ma è tardi e certo salirò a Palazzolo fra qualche giorno, ma per ben altro motivo.
Accingendomi a scrivere, dopo molte esitazioni, queste brevi riflessioni, voglio solo ricordare di passaggio i suoi cinque anni di presidenza al Liceo Classico "T. Gargallo" dal 1992 al 1997, le battaglie per una scuola più efficiente, rigorosa e moderna, la difesa strenua  del vecchio edificio di Ortigia, che si rifiutò sempre di abbandonare oppure l’avventura elettorale del 1994, quando in un momento veramente poco favorevole per la sinistra, si presentò alle elezione  per il Senato della Repubblica. Nell’occasione, come suo segretario, potei seguire in ogni momento  la sua campagna elettorale e apprezzarne l’onestà di fondo, le difficoltà dell’ambiente e l’opposizione di quelli che in teoria dovevano essere amici, fino all’epilogo, non disprezzabile in termini di suffragi, anzi,  ma quasi scontato fin dalla partenza. Tanto meno voglio ricordare la sua carriera di professore e di Preside.
Tutto questo ha certo la sua importanza, ma dal mio punto di vista e per quello che voglio ricordare, non è né essenziale né fondamentale, perché quello che desidero mettere in luce è la dimensione intellettuale  della nostra amicizia, che connotò un’avventura culturale che per circa dodici anni ci legò nell’attività all’interno della sua creatura intellettuale: l’istituto Superiore di Studi Umanistici. Lo avevamo fondato in tre, Paolo, io e Mario Rubino, ma il fondatore e l’ideatore era lui.  È stato lì che, ambedue in pensione, nelle innumerevoli giornate trascorse a discutere,  a progettare e a pubblicare la rivista Letture critiche,  abbiamo dato corso all’idea di cultura che egli aveva. Ed  era sempre il primo, il più propositivo, il più entusiasta; egli diceva, in verità, il più pragmatico.
Tutti i pomeriggi o quasi, nella sede al n. 8 dell’allora via Cialdini, discutevamo animatamente. Quando eravamo tutti e cinque i redattori della rivista, Elio Cappuccio, Pino di Silvestro, Nino Consiglio, Nello Amato e Paolo Greco, portatori di esperienze culturali diverse,  il disaccordo era spesso veramente totale. Si parlasse di Hegel o di Marx, di Heidegger o di Berlin, di Croce o di Sartre, di Illuministi (che amava molto) o di Esistenzialisti, di pragmatismo, di politica o di attualità, perfino della gnosi o del Vangelo di Giuda, ci accapigliavamo con fervore, e qualche amico, transitando dalla vicina via Catania, sentendo ed intuendo si affrettava a presentarsi per vedere che cosa stesse succedendo. E capitava anche che si unisse alla compagnia, con ulteriore aumento del coefficiente di contrasto. Spesso animate dispute si concludevano infectis rebus, ma non era questo l’importante. Su tutto fieramente discordi su un punto fondamentale eravamo ferreamente d’accordo: che la discussione, la dialettica vivace ed onesta, pur talvolta nel più radicale contrasto delle posizioni, il confronto aperto, sono l’elemento fondante e imprescindibile della condivisione dei valori che connotano la cultura autentica e l’onestà intellettuale. Convenivamo, cioè, che il disaccordo delle idee argomentate e sostenute con intelligenza era la liaison di ogni vero rapporto intellettuale paritario.
Sotto questo profilo la sua onestà e la sua coerenza di fondo furono esemplari, nella cultura come nella politica, nella quale sempre veramente guardò agli interessi della società e non certo ai suoi, benché talvolta i suoi atteggiamenti fossero  o sembrassero radicali e alieni da compromessi. E gli piaceva il fatto che  glielo ricordavo, come farò anche  ora, con le parole di Cicerone, un’autore che, per quanto possa  parere strano,  molto prediligeva: «tuam salutem posteriorem salute communi  semper ducis».
Di quegli anni irripetibili Paolo Greco fu senza dubbio il vero artefice, perché più di tutti aveva creduto e voluto quel sodalizio di spiriti liberi e indipendenti e più di tutti l’aveva sostenuto con passione e puntiglio, trapiantandolo poi, quando a Siracusa aveva esaurito la sua vitalità,  a Palazzolo, dove aveva ancora dato i suoi frutti, che spero non muoiano. Tra il 1998 e il 2010 molto discutemmo e molto realizzammo, soprattutto con la ricordata rivista Letture critiche, dove regolarmente trovavano il luogo loro deputato i risultati delle nostre perenni dispute.
Quella scelta l’abbiamo condivisa fino all’ultimo. Non è un caso che nel mio ultimo libro Alle radici dell’Europa moderna, germogliato proprio nelle dispute di quegli anni nell’ambito del progetto "la città partita" - (che egli aveva ideato,  con chiaro riferimento al verso dantesco) - ma pubblicato solo nel dicembre del 2020, la postfazione sia di Elio Cappuccio e la prefazione appunto di Paolo Greco  che, pur sofferente, non volle sottrarsi a un impegno che considerava d’onore. Forse in nome di quei tempi, passati ma mai tramontati.

 
 

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