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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni II
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

2^ fase

 
 

Sebastiano Amato  

 

L’ Odissea di Nikos Kazantzakis tradotta  da Nicola Crocetti

 

I connazionali, o meglio, gli apparati, non amavano Nikos Kazantzakis. Non lo amavano, per i suoi atteggiamenti e per le sue scelte poetiche e linguistiche; a più forte ragione non lo amavano per le sue scelte morali e religiose. Non lo amavano né i laici né i religiosi: per la Chiesa ortodossa greca era addirittura una specie di anticristo. E infatti nel 1953 lo scomunicò per il romanzo L’ultima tentazione, negandogli poi, nel 1957, la sepoltura in luogo consacrato. Così il poeta fu inumato, su sua richiesta, a Iraklio, dove era nato, nelle mura della fortezza veneziana Mocenigo, quasi a guardia del mare e dei monti di Creta. Di rado accade assistere a una contrapposizione così forte e netta tra un intellettuale e i suoi concittadini o, almeno, le istituzioni politiche e religiose di un paese.
L’ostilità, che celava antinomie di fondo e qualche incomprensione anche voluta, divenne palese a livello internazionale in occasione dell’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura. Fin dal 1946 la Società degli scrittori greci lo aveva candidato; insieme a Sikelianós,  al premio Nobel. L’Accademia di Svezia, nel 1957, pressata dal governo e da una parte "forte" dell’ opinione pubblica ellenica, dando prova non bella di servilismo e di provincialismo, non assegnò il premio al poeta. Onestamente A. Camus, l’autore della Peste, quando proprio nel 1957 vinse il Nobel, con un solo voto di scarto, scrisse a Kazantzakis un telegramma essenziale: «Voi l’avreste meritato cento volte di più».
Questo e molto altro leggiamo nella Introduzione alla monumentale prima traduzione italiana dell’Odissea del poeta cretese (edita nel 1938), condotta a termine e pubblicata da Nicola Crocetti  (N. Kazantzakis, Odissea, tr. di N. Crocetti, ed. Crocetti, novembre 2020, pp. 797).
Approfitto della cortesia del direttore, dott. Bianca, per fare non una recensione, ma per presentare una serie di riflessioni, divagazioni le stiamo chiamando, in questi tempi di pandemia perdurante e distruttiva, simili a quelle già pubblicate in questi mesi calamitosi, in cui il mondo aspetta una salvifica palingenesi per via di vaccini o di qualcosa d’altro. Sarà anche un’occasione per chiacchierare del poema e di Kazantzakis, non certo noto al grande pubblico, sebbene sia il poeta neogreco più tradotto e malgrado la celebrità del romanzo Vita e opere di Alexis Zorbàs, da cui fu tratto nel 1964 il notissimo film di Michael Kakoyannis, Zorba il Greco, premio Oscar 1965, con Antony Quinn e Irene Papas, musiche di Mikis Theodorakis (col famoso sirtaki sulla spiaggia di Stavros a Creta).
È bene subito dire che siamo di fronte a un’impresa "titanica" o, meglio, trattandosi di un poema, che è la prosecuzione ideale dell’epos omerico e in cui si raccontano «i tormenti e le passioni» (Prol., 73) del Signor Ulisse di Laerte da Itaca, "ciclopica", che forse solo Crocetti, uno dei massimi conoscitori ed esperti di letteratura neogreca al mondo e al tempo stesso uno dei più prestigiosi traduttori, poteva tentare con speranza di portarla felicemente a termine.
Bisognava tradurre un epos, che Kazantzakis definì a ragione il più lungo della tradizione occidentale, più ampio dell’Iliade e dell’Odissea insieme, 33.333 versi suddivisi in 24 canti, in lingua dimotikì e in metro decaeptasillabo giambico, (con otto battute e diciassette sillabe senza rima), che sono il distillato di tredici anni di attività febbrile e visionaria del poeta, in preda a un furore compositivo inarrestabile, furori misticheggianti e ascetici isolamenti, che lo portarono a stendere ben sette edizioni del poema, alcune persino di  42.000 versi, per un totale di oltre 240.000 versi, fino al numero, per il poeta fortemente significativo, di appunto 33.333 versi, in cui compare solo il numero tre, il tre della terzina e delle Cantiche di Dante, della Trinità (cosa forse non voluta) e dello schema triadico della filosofia hegeliana. E forse ancora altro si nasconde nel numero, se lo analizziamo con i nostri numeri "indiani": 3+3= 6 e 3+3+3 = 9, numeri anch’essi cabalistici, speculari e apocalittici. Come del resto il numero sette, apocalittico anch’esso per eccellenza (Ap. 6,1-8,1), spesso presente nella narrazione.
Il poema è aperto chiuso da un’invocazione al Sole, "Ílie, megále anatolíti mu" " Sole, grande astro orientale", simbolo dello spirito primordiale. Dopo il ritorno di Ulisse ad Itaca, Penelope è scossa dall’aspetto del marito, un selvaggio coperto del sangue dei Proci uccisi. Itaca è in rivolta contro il suo re e lo stesso figlio Telemaco odia il padre e medita addirittura di ucciderlo.
Con l’aiuto di cinque fedeli compagni, pittoreschi e border-line, Ulisse allora, estraneo a tutto e a tutti, abbandona per sempre Itaca e si dirige a Sparta, dove l’infiacchito e imbolsito Menelao non aderisce alla richiesta di partire con lui. Elena, invece, ancora bellissima, stanca e insoddisfatta della routine giornaliera in una Sparta che non ha niente da dirle, accetta la proposta e i due partono per un nuovo viaggio, ricco di avventure strane e talvolta bizzarre.
A Creta Ulisse distrugge il regno del decrepito Idomeneo, suo vecchio compagno a Troia: Cnosso viene incendiata e saccheggiata dai barbari del nord ed Elena rimane sull’isola, con disappunto dei critici,  e concepisce il figlio Eleno con un biondo giardiniere del nord.
Ulisse raggiunge l’Egitto e partecipa a una rivolta contro un faraone poeta e decadente, ma viene ferito e fatto prigioniero. Liberatosi con un sotterfugio, parte con una banda di criminali e disperati alla ricerca delle sorgenti del Nilo, la scaturigine dell’acqua immortale e della giovinezza, ma anche della Morte. Lì conta di fondare una città ideale, una città platonica. Dopo un’esperienza mistica di sette giorni  in comunione con Dio, il progetto è pronto: si tratta di una città socialista, fondata sulle idee di  Platone, Agostino e Thomas More.  Il progetto, un’utopia, naufraga, perché il giorno dell’inaugurazione un terremoto la distrugge: nel mondo non è possibile edificare alcuna città ideale. Ulisse rimane solo e cade in un lungo periodo di contemplazione ascetica, mentre la sua fama si propaga nell’Africa e viene adorato come un salvatore. Viene anche tentato, come Cristo nel deserto, da un uomo-serpente.
Ripreso il viaggio verso l’Africa meridionale, incontra la prostituta Margarò e il principe Madreterra (incarnazione di Budda), Kapetàn Enas (Capitan Solo, don Chisciotte), il principe Eliàs (il poeta stesso) e un pescatore africano (un’ ipostasi di Cristo). Ulisse, che ha acquisito il terzo occhio, quello della conoscenza, fa un tratto di strada insieme con la Morte, amica e nemica che gli è sempre vicina e davanti e, tra scene di distruzioni e di massacri, raggiunge l’Oceano Australe.
Qui, costruita l’ultima imbarcazione, Ulisse, ormai solo, si dirige verso il Polo Sud, e l’aurora australe gli appare come una corona di morte sopra la testa.  "A cavallo del suo feretro si lancia verso la Morte,/ la grande ostessa dai tavoli apparecchiati, e le porta,/avvolta in pampini freschi, la propria testa come dono" (XXII 68-70). L’imbarcazione si scontra con un iceberg e Ulisse va  alla deriva su un blocco di ghiaccio, ma riesce a raggiungere un insediamento di igloo, dove viene accolto come il Grande Spirito. In preda a un visionario furore di distruzione si imbarca, a primavera,  su una canoa, mentre un immane terremoto inghiotte ghiacci ed esseri viventi. Egli, intanto, compie l’ultimo tratto del viaggio nell’Antartico, dove ha un secondo e definitivo scontro con un iceberg. È il momento della Morte, un momento dantesco. Ulisse si congeda dalla vita: è la sintesi della sua esistenza straordinaria, e straordinariamente epica è la descrizione degli ultimi momenti terreni dell’eroe. Aggrappato nudo e sanguinante alla montagna di ghiaccio, è inseguito dai ricordi del passato, finché l’anima lo abbandona per trasformarsi in fiamma, luce, spirito: La carne dissolta, lo sguardo fosco, il cuore fermo. /La grande mente balza sulla vetta del suo riscatto;/un ultimo frullo di ali vuote, poi, ritta nel vento,/si alza in volo, esce dall’ultima gabbia, la libertà./Tutto svanisce come bruma, soltanto un grido resta/sospeso per brevi istanti sulle calme acque notturne:/"Avanti, amici, soffia propizia la brezza della Morte" (XXIV, 1390-1396, tr. Crocetti). Alla Morte non ha lasciato niente, perché egli ha superato la sua doppia natura (Dighenìs, doppia stirpe, è uno degli epiteti che lo connotano), carne e spirito: "Morte, l’Arciere ti ha beffato, ha scialato i suoi beni,/ le scorie della carne le ha sciolte prima del tuo arrivo/ ne ha fatto spirito, te le ha sottratte, e se vieni trovi/soltanto fuochi spenti, carboni e ceneri di carne!" (XXIII, 34-37).
Questo lo schema, gli episodi e le situazioni sono migliaia  e migliaia le riflessioni ed è impossibile riassumerli: il poema deve essere letto, con fatica, ma non si può fare altrimenti.
La materia lussureggiante, incandescente e magmatica, un turbinio di immagini, di sensazioni, di descrizioni, di riflessioni sugli uomini,sul destino e su Dio "un ricamo della mente" (XIV, 308), spesso nella dimensione della metafora, del simbolo, dell’allegoria, in cui traluce di continuo qualcosa di vano e di orgoglioso, di audace  e di voluttuoso, di orgiastico e di temerario, di ancestrale (tipica l’ossessione dei seni femminili, fonte di piacere e di vita) e di moderno, trova la sua via espressiva in un’opulenza linguistica straordinaria, frutto di un lavoro gigantesco che ha portato Kazantzakis (innamorato della dimotikì, la lingua popolare) ad attingere nel patrimonio linguistico trimillenario della Grecia e a salvare un lascito linguistico unico, da Omero, ai giorni del poeta (
lóghia tĩs glõssas mas hópōs tì mi- /lũsan prìn trìs chiliádes crhónia, dice Seferis in Sopra un verso straniero e, guarda caso, è la lingua in cui il megálos Ulisse  sta parlando al poeta di Smirne).
E, infatti, Kazantzakis girovagò instancabilmente per tutto l’Egeo, per cogliere sulla bocca dei contadini e dei pescatori analfabeti le parole del passato, gli athisávrista, e così salvò gli ancestrali relitti ancora viventi e ne raccolse 7.500, creando veramente una lingua panellenica, che ridiede vitalità alla koiné continentale e nella quale cogliamo ancora i suoni di Omero, dei lirici, dei tragici, degli scrittori bizantini, ma anche dei canti popolari, della "loquela" demotica che ha  scardinato la sintassi antica e della lingua pura.
Questa lingua così nuova e così viva era ardua e ha sgomentato i lettori, anche intellettuali, malgrado il dizionarietto con 2.000 vocaboli allegato dal poeta alla prima edizione.  
Kazantzakis considerò il poema il suo opus magnum, l’opera in cui aveva profuso tutte le sue energie, intellettuali e spirituali, in cui tentava di dare significato ultimo alla figura di Ulisse (il poeta stesso), che da astuto eroe omerico passa, attraverso un cammino di elevazione, di liberazione e di redenzione, prima ad idealista romantico, poi ad un Mosè che vuole salvare il suo popolo e infine a capo rivoluzionario socialisteggiante sui generis alla ricerca «della vetta più  alta, più dolce, la bontà» (XIV 651), scalando la dimensione dell’Io, della stirpe e del genere umano. Una gigantesca visione dionisiaca, con forti influssi di Nietzsche e di Bergson, suo maestro a Parigi, il cui élan vital sta alla base dell’ "Azione" di Ulisse, erede di Eracle e di Prometeo, l’uomo forte, quasi superuomo, che vuole scoprire le leggi eterne dell’esistenza, per armonizzare e salvare l’umanità e  il mondo. Ed è per questo che alla fine del poema appare anche Apollo.
Il poema, invece, fu accolto freddamente e molto criticamente nel 1938 e le incomprensioni sono poi continuate. Come giudizio storico si può accettare in via preliminare quello sintetizzato da M. Vitti, Storia della letteratura neogreca, Roma 2001, pp. 248-249:«Quel che si può sostenere oggi, dal punto di vista storico, è che l’opera è sì un epos poderoso, un monumento, ma anche un’opera arrivata tardi fuori tempo, quando ormai viene meno la ragion d’essere di opere con simili assunti (non è trascurabile il fatto che nel 1935 si stampa Mythistòrima (Leggenda) di Seferis, un "epos alla rovescia")».
C’è del vero in questo giudizio, perché l’opera, effettivamente appesantita da un eccessivo carico lessicale e filosofico, manca spesso del respiro naturale e dell’afflato lirico necessari a un testo poetico di tale estensione (N. Crocetti - FM. Pontani in Poeti greci del Novecento, Milano 2010, p. 1716). E tuttavia - afferma lo stesso Crocetti- essa rimane un monumento immortale della lingua della Grecia, della sua storia e civiltà trimillenarie. Credo si possa dire che essa  è anche un devoto atto di fede verso la  poesia, la mitologia, la filosofia, le  ballate e  i canti popolari di una tradizione inimitabile.
Di fronte a tutto questo si è trovato di fronte il traduttore, quando, anche per esortazione di Kimon Frear, si è accinto all’impresa di dare la prima traduzione italiana del poema, e per di più in versione isomera. L’amico lettore ora comprende perché la traduzione è veramente un’avventurosa esplorazione, la sofferta conquista di un mondo misterioso, di un universo intero, che bisogna decifrare con il gusto del linguista, la sagacia dell’archeologo, il coraggio dell’esploratore, la pazienza del ricercatore di apax legómena e di glosse, che esplora testi, lessici e Web.
Oltre alle difficoltà intrinseche, sapeva, il traduttore,  che le sonorità del greco le assonanze, la dimensione fonica non potevano essere, naturalmente riprodotte - il che vale per tutte le lingue e le traduzioni- e bisognava ricrearne originalmente altre  e altrettanto convincenti.
L’esito finale, splendido, che nel suo  ampio e  fluido  scorrere elegante cerca di "approssimarsi" a quello dell’originale, rivela lessico amplissimo, duttile, raffinato e ricercato, che, anche quando diventa di necessità crudo e realistico, non è mai rozzo e triviale; assoluta e naturale essenzialità e omogeneità ritmica, che non diventa mai musicalità facile e accattivante. Nasconde anche il tormentato lavoro del traduttore, che conosce tutte le sfumature delle due lingue, sempre cosciente dello iato mai del tutto colmabile tra i due testi, e che sa di stare sul filo del rasoio (trattandosi di un traduttore come Crocetti, mi piace riprendere l’ immagine dell’Anonimo del Sublime), dove in due non si può stare fianco a fianco.  Per questo mi sono anche impegnato a rivedere i passi tradotti in Poeti greci del Novecento. Ho riscontrato nelle due versioni non pochi cambiamenti e talvolta non ho saputo decidere quali scelte fossero migliori, se quelle di dieci anni fa o queste, ma ho capito che le occasioni erano completamente diverse e il traduttore si era adattato. Lì si trattava di traduzioni, per così dire, di frammenti da inserire in una antologia, qui di creare un continuum lungo quanto il poema e, quindi, di uniformare, levigare, contenere nella misura dei versi.
Crocetti ha assolto, come meglio non si poteva, il suo compito di grande mediatore, come lo schinovàtis, il funambolo,  sospeso su nei cieli, sulla sua corda in faccia alla luna, e ha saputo creare nuove atmosfere, nuove sonorità, una trama verbale fluida e mai gratuita, scavando nelle fibre più profonde del testo per spremerne il succo più genuino. Colma una lacuna e ci offre una lettura comunque affascinante.
Così questo nuovo testo, la traduzione, attinge la misura di una nuova autenticità poetica, e, credo, finirà quasi per avere vita autonoma- il sogno dei traduttori - come quelle di Annibal Caro, Ippolito Pindemonte e, soprattutto, Vincenzo Monti.

 
 

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