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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni I
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

 
 
 

Paolo Fai*

 


Via dalla pazza folla

 


La prigionia coatta da Coronavirus ci apparenta allo Xavier De Maistre del Voyage autour de ma chambre. Lui, ufficiale sabaudo, fu punito agli arresti domiciliari con 42 giorni di consegna per essersi battuto a duello a Torino nel 1790. Ed "evase" da quello stato raccontandosi in 42 capitoli di un libro che gli diede la celebrità.
E noi? Condannati alla pena detentiva degli arresti domiciliari dal tribunale della Natura, che di tanto in tanto chiama gli esseri umani sul banco degli imputati per chiederci conto delle innumerevoli violenze che, invasi da un mai domo delirio di onnipotenza (la hybris dei greci), le infliggiamo, privati della libertà, e delle libertà, che credevamo inoppugnabili, avvertiamo la nostra fragilità. E ci interroghiamo sull’uso  e sull’abuso che ne abbiamo fatto, di quelle libertà. Ma niente impariamo. Le lezioni della Storia non ci scalfiscono (e questo è il "tragico"). Anche per questo, tra i prodigi della Natura, l’uomo è «il più inquietante» (preferisco rendere con l’aggettivo freudiano "unheimlich", ‘perturbante’, ‘inquietante’, la ‘terribile’ polisemia dell’aggettivo greco), come lo definisce Sofocle nel celebre corale dell’Antigone.
Ora, la serrata decretata dal Governo si prospetta più lunga dei 42 giorni del cadetto francese. Dunque, urge sperare in una buona tenuta psichica, necessaria per affrontare i disagi di una convivenza forzata. Però, che il nostro equilibrio mentale subisca contraccolpi, non è ipotesi remota.
Le nostre evasioni, inevitabilmente innocenti, perché attuate al cospetto degli altri famigliari, dipenderanno certo dall’estensione delle nostre abitazioni. Che, per gran parte delle famiglie, non sono maxi-appartamenti, al più bilocali, talora monolocali. Forse cominceremo a soffrire di claustrofobia, depressione, disperazione, solitudine…
Per il protrarsi della posizione da "culoindivano", "culoinpoltrona" o "culo-al- computer", se non ci atterremo a una dieta ferrea e non praticheremo una minima ginnastica da camera, rischieremo il contagio del "culonevirus". E i litigi, dove li mettiamo? Esploderanno, eccome, più del normale e per i più futili motivi e manderemo a farsi catafottere il super-io freudiano.
In questi giorni, mi è capitato sotto mano un articolo di Claudio Giunta (Così è la Commedia, parola di Dante, «Il Sole 24 Ore», Domenica  13 gennaio 2019), che cita, tra gli altri, un verso e mezzo del XVII canto del Paradiso dantesco: "… per colpo darmi / tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona" (vv. 107-108). Il soggetto è il tempo, che Dante – dice al suo antenato Cacciaguida – si rende ben conto come lo incalzi minaccioso, come fosse un cavaliere (donde "sprona"), per infliggergli una ferita tale (il dolore dell’esilio) che riesce tanto più intollerabile quanto più uno si fa trovare impreparato (Sapegno: "tanto più intollerabile, quanto più ci si abbandona inermi alla forza degli eventi, senza reagire ad essi").
Niente di diverso dalla condizione in cui rischiamo di trovarci noi, in questi giorni minacciosi per la nostra salute, se non reagiremo opponendo fiducia e speranza al nemico invisibile e insidioso.
Il saggio, nelle filosofie ellenistiche (stoicismo ed epicureismo), può realizzare la tranquillità dell’anima e la propria dirittura morale solo quando se ne sta solo con sé stesso. Perciò, al suo discepolo Lucilio, che gli aveva chiesto che cosa dovesse specialmente evitare, Seneca, filosofo stoico, risponde: la folla, perché «non puoi affidarti ad essa senza pericolo» che ti contagi i suoi vizi. Il precetto principale che Epicuro indirizzava a coloro che volessero seguire la sua dottrina era quello di "starsene appartati", di non farsi vedere in giro, di non andare per "negozi", a cazzeggiare per mercati, a sprecare tempo e denaro.
Allora, mentre il rischio del contagio del Covid-19 si va facendo di giorno in giorno più preoccupante, anche se siamo molto lontani dal diventare saggi, almeno in questa occasione facciamo nostre le parole esordiali della citata lettera settima dell’Epistolario senecano. E meditiamo anche sull’esemplare descrizione fenomenologica della società di massa che Alexis de Tocqueville fa nella Democrazia in America: «Vedo una folla innumerevole di uomini simili e uguali che girano senza tregua su sé stessi per procurarsi piccoli piaceri volgari, con cui s’appagano l’anima» (diciamoci la verità: è la stessa folle innumerevole che, due secoli dopo la "sentenza" tocquevilliana, non avendo mai preso tra le mani un libro o un giornale, ora, murata in casa, non saprà che cazzo fare, se non, ingozzandosi di tv spazzatura, "mariadefilippizzarsi" – forma postmoderna di "mitridatizzazione", ovvero di avvelenamento da "zuppa" televisiva –, o compulsare maniacalmente il telefonino).
Oggi, più che mai, questa è l’occasione (kairòs lo chiamavano i greci, "fortuna" la chiamava Machiavelli) per dimostrare a noi stessi che noi, happy few, non siamo così. Restandocene in casa, o uscendo il minimo possibile e solo per necessità, avremo dato prova di aver acquisito almeno un briciolo di saggezza. Non solo. Potremo dedicare il tanto tempo libero disponibile alla lettura di libri e giornali, all’ascolto di musica, ad altre attività creative e ricreative. Ma anche a rivolgere uno sguardo più affettuoso ed empatico ai nipotini che, tra i giochi più bizzarri e assurdi (ma tali solo al nostro sguardo di adulti ‘razionalisti’, che faremmo bene a ricordarci del motto di G. B. Shaw: "L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare") e le inevitabili chiassose baruffe, grazie alla loro beata ignoranza della condizione tragica cui anche le loro vite, in questi giorni, sono esposte, riescono a ‘contagiarci’ il buon umore e la spensieratezza.
«Ma – qualcuno obietterà – l’uomo è un animale sociale». Vero! Ma c’è un tempo per la chiacchiera e un tempo per il silenzio. Impediti di uscire, cogliamola questa opportunità (ogni ’mpidimentu è ggiuvamentu, suggerisce la saggezza antica di un proverbio siciliano) di stare (e dialogare) con noi stessi, riscoprendo, tra le pareti domestiche, le virtù della lentezza e del silenzio (magari ascoltando, nella versione cantata da Mina – un modo per farle gli auguri per i suoi freschi 80 anni –, quel piccolo capolavoro [parole di Mogol, musica di Paolo Limiti] che è La voce del silenzio, 1968; o l’altro capolavoro di Simon & Garfunkel, The sound of silence, 1964). Per non dire che lentezza e silenzio sono gli amici preferiti degli studi severi, quelli in cui si ritirava Machiavelli dopo aver gozzovigliato ed essersi ingaglioffito "in taberna", e in cui, indossati gli abiti curiali, se ne stava a dialogare coi suoi antichi maestri, cibandosi di quel cibo che "solum" era suo.
Leggiamo o rileggiamo i classici, antichi e moderni, allora. Ne vale la pena. Perché, diversamente dalla cronaca tambureggiante dei media e dei social di questi giorni tremendi, non sono ansiogeni, anzi ci liberano dalle passioni, dai pregiudizi, dalle idee ricevute. Perché – notava Ezra Pound – «i classici antichi e moderni sono … gli unici antisettici contro l’idiozia dell’umanità».
Insomma, come suggeriva qualche anno fa Lina Bolzoni («Il Sole 24 Ore», Come guardare all’autore, Domenica 9 dicembre 2012), proprio oggi, mentre «si parla molto di crisi del libro e di crisi della lettura…, vale forse la pena di ripercorrere i grandi miti che la tradizione classica e umanistica ha costruito intorno alla lettura». E ripensava alla celebre lettera del 10 dicembre 1513 di Machiavelli al Vettori, quando, «nel chiuso del suo studio, Machiavelli compie una vera evocazione: gli autori antichi sono presenti, vivi, parlano, e discutono con lui. Machiavelli sottolinea la dimensione di radicale déplacement: "Tutto mi trasferisco in loro", e cioè in un mondo altro, in cui si ritrova se stessi e si vive come in una sospensione dell’angoscia».
Secondo la Bolzoni, «nel cuore del nostro mito c’è un’antica idea, che vede nel testo uno speculum animi: nelle parole si rifletterebbe l’animo di chi le ha scritte; per questo è possibile per il lettore attraversare lo specchio, e arrivare a "vedere" l’autore, a conoscerlo e a parlare con lui come fosse un vecchio amico». Vicino ma distante. Proprio come adesso il Coronavirus ci costringe a fare con gli amici in carne e ossa.
Quando ne usciremo, da questa insolita e spaventosa (tanto più spaventosa perché insolita) esperienza, ne usciremo cambiati, saremo "uomini nuovi", più solidali, meno egoisti, meno tracotanti e più consapevoli dei nostri limiti e della nostra fragilità, più rispettosi della Natura e di noi stessi? Forse. Non so. L’esperienza del male non ci rende migliori. Passata la tempesta, torneremo a comportarci come prima. Lo ha spiegato assai bene lo psichiatra Eugenio Borgna, intervistato da Paolo Di Stefano: «Visto l’andamento abituale cui la modernità ci costringe, si finirà vittime della forza dirompente dell’oblio. La memoria è continuamente divorata da quello che accade qui e ora» («la Lettura», Corriere della Sera, domenica 22 marzo 2020).
Non è pessimismo. È il realismo di un novantenne.
                                                                                                 
Paolo Fai
                                                                                     Socio della Società Siracusana di Storia Patria


 

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