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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni I
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

 
 
 

Sebastiano Amato

 

Cherea e  Calliroe. Tra amore, femminicidio (quasi), avventure e ricongiungimenti. Una  storia antica di giovani Siracusani

 

I

 

Nel 1750 il dotto olandese J. Philippus D’Orville  diede per la prima volta alle stampe Amstedolani, ad Amsterdam, apud Petrum Mortier «Charitonis Aphrodisiensis amatorias narrationes», fino ad allora sepolte «in Bibliothecarum pulvere» e «e Bibliothecarum tenebris in lucem productas». Questo racconto d’avventure e d’amore era contenuto in un piccolo (cm 17,3 x 12,8)  codex unicus del XIII secolo, di 140 fogli scritti fitti, tra 50 e 60 righi. È un codice miscellaneo, contenente, oltre ad alcuni  autori cristiani  bizantini, il testo dei romanzi di Longo Sofista, Achille Tazio, Senofonte Efesio. Nei fogli 48-70v è contenuto il testo di Caritòne.    È di provenienza orientale (il copista si chiamava probabilmente Demetrio di Melitene in Cappadocia)  ed è pervenuto nel 1425 all’Abbazia di Sanctae Mariae Florentinae, per diventare poi   Laurentianus (Biblioteca Medicea Laurenziana, Conv. Soppr. 627). Si tratta di un’opera appartenente a un genere letterario che i Greci non riuscirono ad identificare e a definire con un termine unico e preciso e che oggi chiamiamo romanzo. I bizantini lo definivano drâma, dramatikón, diegema, mythikòn diegema. I dotti moderni, in molti  a cominciare da Pierre-Daniel Huet (Traité de l’origine des romans, del 1670) hanno trattato sistematicamente il problema del romanzo greco, specialmente quello della sua origine, ma non si è ancora giunti ad una conclusione da tutti condivisa, e quello del suo rapporto con la novella. Ma qui la cosa importa poco.
L’autore del nostro romanzo è un suddito romano, di nome Caritòne, come abbiamo visto, segretario del retore Atenagora, nomi che ambedue possono essere veri e non fittizi come per molto tempo si è pensato.  È di Afrodisia, fiorente città della Caria; siamo quindi nella parte orientale dell’ impero romano. L’epoca di composizione, dopo lunghe diatribe, risolte dalle notizie acquisite in seguito ad alcune scoperte di frammenti di rotoli di papiro, pubblicati  dall’inizio del  sec. XX fino agli anni settanta, è stata fissata alla fine del I sec. dell’era volgare. Si tratta, dunque, del primo dei cinque romanzi greci pervenutici integri.
Ma perché scrivere di queste cose che riguardano solo pochi specialisti? Il motivo, un po’ esteriore, in verità, è che siracusani sono i giovani protagonisti principali del romanzo e  Siracusa, quella di fine quinto e inizio  IV secolo  a. C., quella di Ermocrate, all’indomani della grande vittoria contro gli Ateniesi, nel 413 a. C , gioca un ruolo importante nella parte iniziale e finale del racconto. Le vicende di Chérea e Callíroe o Il romanzo di Callíroe, questo il titolo dato dai moderni, è, dunque, in qualche maniera un romanzo siracusano. Come dice espressamente l’autore nel breve preambolo, egli racconterà una storia d’amore accaduta a Siracusa (páthos erotikòn en Syrrakoúsais (sic nel cod. L)
ghenómenon dieghesomai).  La trama, come in tutti i romanzi greci, è complessa e di difficile esposizione, ma è necessario procedere a una sintesi organica, per far comprendere al lettore l’abituale modus operandi del romanziere greco e di Caritòne in particolare. Il lettore noterà come l’espansione "episodica" della narrazione (le peripezie proprie della tragedia e della commedia nuova) compensi l’insufficiente approfondimento psicologico dei personaggi. Quando dico "insufficiente" lo dico in relazione alla nostra sensibilità di lettori moderni, che prediligiamo la raffinata ricerca del mondo  interiore, spesso complicato e sfuggente, in cui si esprime la precarietà contraddittoria delle nostre ricorrenti crisi esistenziali. Ma Caritòne, come si vedrà, è anche capace, talvolta,  di  sottili, anche se ingenue,  notazioni psicologiche.
Il colpo di fulmine avviene un giorno imprecisato, di un mese sconosciuto, di un anno non noto, ma di poco posteriore al 413 a. C., qui a Siracusa, durante la celebrazione delle feste pubbliche in onore di Afrodite. La protagonista è Callíroe, figlia di Ermocrate, il vincitore degli Ateniesi. Porta il nome di un’Oceanina, che significa dalla bella corrente, già registrato nella Teogonia di Esiodo al v. 288.  Nell’Inno omerico II, a Demetra, fa parte del corteggio di Kore che raccoglie fiori ad Enna. Ad Atene esisteva una sorgente Kalliróe, (Ps. Plat. Ax, 364a) poi  Enneacruno, dalle nove cannelle. Il nome è comune a molte ninfe  del mito, Callíroe figlia di Acheloo, di Oceano, di Scamandro, come attesta Apollodoro.
È una ragazza, manco a dirsi, di straordinaria e sconvolgente e quasi divina bellezza. Esce di casa per l’occasione. È la prima volta che lo fa in compagnia del padre, per assistere ai festeggiamenti della dea di cui essa sembra essere l’incarnazione umana, Afrodite. Significa che è diventata adulta: è felice e contenta, assolutamente ingenua e inesperta. Chérea, figlio dell’anziano Aristòne, omonimo di un famoso nocchiero corinzio, caduto in combattimento nel Porto Grande, come sappiamo da Tucidide, giovane anch’esso di ineguagliabile bellezza e sensibilità, se  ne torna bel bello dalla palestra, dopo gli esercizi ginnici, pieno di energia e di sogni. Ad una curva, in una stradina stretta, complice certo la dea, si trovano uno di fronte all’altra e finiscono per scontrarsi; in un attimo fulminante incrociano indissolubilmente i loro destini. Un po’ come accade alla Simèta teocritea, che impazzisce a prima vista per Delfi di Mindo. Ma nel romanzo, al contrario che nelle Incantatrici,  l’innamoramento  è reciproco e dall’incontro al matrimonio il passo non può essere che breve, dato che nella vicenda sono implicati Afrodite e quel birbante di Eros, in rappresentanza stavolta dell’amore coniugale.
Così comincia, o a un di presso, il sopra ricordato più antico romanzo greco pervenutoci, un lungo racconto d’amore e d’avventura.  
La questione è, però, come al solito, ingarbugliata, perché fra Ermocrate e Aristòne c’è rivalità politica, sicché fra i due non si può dire che corra buon sangue. I Siracusani, tuttavia, affascinati dalla bellezza dei giovani e incantati dal miracolo di un amore sì sùbito e assoluto, si riuniscono in assemblea nel loro teatro e riescono a convincere i riottosi genitori a dare il loro consenso. Si celebra il matrimonio ed è splendido, perché illuminato dalla bellezza di Callíroe, che sembra Artemide quando «in un luogo solitario si manifesta ai cacciatori» (I 1, 16).
Ma ogni cosa bella è insidiata dall’Invidia (Pthónos), cioè da un báskanos dáimon. Accade che gli altri pretendenti delusi - accadrà sempre così d’ora in poi - si accordino per distruggere quell’unione. Il tiranno di Agrigento mette in opera un inganno ignobile per fare ingelosire Chérea, di cui conosce il carattere impetuoso e talvolta irriflessivo. Dopo un primo tentativo fallito, utilizzando le capacità di un suo parassita, che abilmente intreccia una relazione segreta con la serva di casa preferita da Callíroe e  insinuandosi nella famiglia di Chérea, riesce nell’intento. Il parassita  fa credere al giovane che Callíroe lo tradisce e gli confida  che gli permetterà di cogliere sul fatto l’adultero mentre entra in casa: «Fa’ finta» dice «di andare in campagna. A notte fonda sorveglia la casa e vedrai entrare l’adultero» (IV 8). Chérea, roso dalla gelosia, abbocca. Si apposta ed effettivamente vede entrare un tizio in casa. Allora si precipita dentro per cogliere l’adultero sul fatto (ricorda l’ateniese Eufilèto nel racconto che Lisia gli fa fare nell’orazione Per l’uccisione di Eratostene, dove, però, ci scappa il morto). Il quale supposto adultero, cioè il parassita, nascosto dietro la porta, sgattaiola fuori, appena Chérea entra in casa. La povera Callíroe va incontro al marito rallegrandosi, ma Chérea, preso dalla collera, non ha voce per rimproverarla né per chiedere spiegazioni. Solo le sferra un calcio mentre ella si avvicina. La colpisce all’altezza del diaframma e blocca il respiro della ragazza, che si accascia, in apparenza morta. I lettori antichi, o forse, essendo molto più numerose le donne che  leggevano il romanzo, è più corretto dire le lettrici antiche pensavano subito a quel poco di buono di  Nerone che con un calcio uccide Poppea malata e incinta.  
Subito dopo, interrogando le serve, Chérea  scopre la sconvolgente verità e preso dalla disperazione medita il suicidio, da cui lo salva Policarmo, l’amico prediletto, «come Omero fece  Patroclo  amico di Achille», dicono, sornioni, i bene informati (I 5, 2).
A Siracusa la cittadinanza è sgomenta, c’è lutto cittadino; poi succede un fatto straordinario. Al processo, il giorno dopo, tutti, anche Ermocrate, sono per l’assoluzione di Chérea; solo l’imputato si autoaccusa e  vota per la sua condanna e poi, assolto dal tribunale,  tenta ancora il suicidio, salvato anche in questa occasione con astuzia dall’amico.
I funerali di Callíroe sono solenni, il mausoleo in riva al mare magnifico: Callíroe vi riposerà per sempre e non vi sarà navigante che non lo scorga. La vicenda sembra conclusa ma non è così, perché invece è solo all’inizio.
In quei giorni, infatti, si aggira a Siracusa il cattivo della storia, un furfante, mezzo commerciante e mezzo pirata, di nome Teròne, nome illustrissimo in pessimo soggetto. Egli, sotto la copertura del mestiere di barcaiolo che esegue trasporti (onómati porthméiou), sta a capo di una banda di pirati della peggiore risma. Il pretesto gli assicura comunque  un soggiorno abbastanza tranquillo.       
Questo Teròne, assistendo per caso al funerale e avendo adocchiato il prezioso arredo funebre, pensa che sia un’occasione irripetibile per fare un colpo straordinario. Dopo averne soppesato le credenziali - è il caso di dire - arruola una banda di loschi figuri nei bordelli e nelle bettole, quasi fosse un reclutatore di Sua Maestà Britannica nell’Inghilterra del XVIII e XVIIII secolo, e nottetempo viola il sepolcro. L’impresa riesce facile, ma la sorpresa è che si trovano di fronte una presunta defunta, viva e terrorizzata, che, a sua volta, si trova di fronte ad una insperata per quanto incerta salvezza. Teròne è ad un tempo un disgustoso masnadiero e un salvatore.
Nel grottesco consiglio di violatori di tombe che segue, Teròne, compiutamente disonesto, dimostra doti invidiabili di imprenditore e decide di approfittare del colpo di fortuna, di portare via la ragazza insieme con il  bottino e di andare a venderla come schiava in Oriente, dato  che per la sua bellezza vale molto di più del bottino raccolto nella tomba. Egli già pensa a una vendita in nero e senza contratto (dià cheiròs), data la delicatezza della situazione. La banda si mette subito in mare e raggiunge Mileto in  Ionia, attraccando a circa ottanta stadi dalla città, forse nel porto di Panormo, lontano da occhi indiscreti. Recatosi in città, con un colpo di fortuna riesce a vendere Callíroe, spacciandola per una schiava di una donna di Sibari, che se ne è liberata per gelosia. L’acquista  Leona, l’amministratore di tutti i beni di Dionisio, primo cittadino di Mileto, amico addirittura del Gran Re di Persia. Quando l’amministratore si reca a vedere la merce, all’ormeggio della nave, vicino per caso a una delle ville del suo padrone, rimane abbagliato dalla bellezza e pensa di poter risolvere il problema che lo angustia: ammorbidire la disperazione del padrone che piange la moglie morta da poco. Callíroe è destinata, nella mente di Leona, a rimpiazzare la moglie defunta di Dionisio, perché è sicuro che la sua bellezza farà breccia nel cuore tenero e gentile di Dionisio, che è greco e si distingue dai sudditi non greci del Gran Re. Fatto l’affare, consegnata Callíroe che viene portata nella villa di Dionisio, che si trova proprio vicino al punto d’attracco della nave,  e ricevuto da Leona in anticipo il talento d’argento del prezzo, Teròne fugge immediatamente, prima della registrazione dell’atto di compravendita e prima che possa essere riconosciuto; a Callíroe ha detto, mentendo forse, di andare in Licia. Ma certamente il suo comportamento non sfugge all’occhio attento del Destino.
Callíroe  rimane sola e triste  in una stanza della lussuosa villa di Dionisio, e si lamenta della propria sorte (týche): «Ecco» dice «un’altra tomba nella quale  Teròne mi ha rinchiuso, molto più solitaria di quella. Mio padre, lì, ci sarebbe venuto, e mia madre, e Chérea vi avrebbe versato libagioni piangendo: ne avrei sentito la presenza anche se morta … Fortuna maligna, per terra e per mare non ti sei saziata delle mie sventure, ma prima hai fatto del mio amante un assassino - Chérea, che non aveva mai colpito uno schiavo, diede un calcio mortale a me che lo amavo -, poi mi hai consegnato nelle mani di ladri di tombe e dalla tomba mi hai spinto in mare … La mia celebre bellezza l’ho avuta per questo, perché grazie a me Teròne il brigante ricavasse il massimo prezzo … Perciò sono stata consegnata come un oggetto (skéuos) non so a chi, se a Greci o a barbari o di nuovo a pirati» (I 14, 7-9, tr. Roncali). Contemplando, poi, l’effigie di Chérea  nel castone dell’anellino, la bacia ed esclama: «Ora sono davvero morta per te, o Chérea,… Tu mi piangi e ti penti, seduto su una tomba vuota, rendendomi testimonianza della mia fedeltà dopo la mia morte. Ed io, la figlia di Ermocrate, tua moglie, oggi sono stata venduta ad un padrone» (I, 14, 9-10).
È sorprendente per il lettore moderno non cogliere nelle parole di Callíroe nessuna accusa per la cieca violenza, sempre imperdonabile, ma a maggior ragione quando incolpevolmente subita, nessun ripensamento, nessun risentimento, nessun rimprovero per un marito stupido e violento. Solo tenerezza e il rimpianto di quello che poteva essere e invece non è stato. Callíroe  è spaventata e teme per il futuro, ma ama e perdona. Solo così, sebbene a stento, può addormentarsi. E forse per questo Afrodite non la abbandonerà mai.
                                                                                            (continua)

 
 

II

 

Calliroe è disperata, si scopre incinta, vuole ad ogni costo e malgrado tutto rimanere fedele a Chérea, il suo erastés, ma anche il suo assassino (quasi) e la causa di tutte le sue disgrazie. A un certo punto invoca Afrodite chiedendole di non farla piacere a nessuno dopo Chérea (II 2, 8) e poi conferma a se stessa di voler morire unicamente come moglie di Chérea (II 11,1). Nel valutare questi atteggiamenti, che ci sembrano e sono  psicologicamente poco realistici, non dobbiamo dimenticare che Callíroe è in fondo una ragazzina di quindici o sedici anni, smarrita e confusa, che in una società fondata sui "valori"maschilisti si sente forse colpevole di qualcosa, mentre, non lo è affatto, e forse prova vergogna a rivelare la tragica verità anche a se stessa.
Intanto Dionisio, sempre poco interessato alla donna sconosciuta, viene condotto finalmente da Leona nella villa a vedere Callíroe. La quale si trova in preghiera nel tempio di Afrodite: lì Dionisio la vede e se ne innamora follemente. Ma è uomo corretto e gentile e ritiene disdicevole iniziare una relazione con una donna che, ancorché bellissima, al momento risulta essere una schiava. In verità proprio la bellezza di Callíroe lo induce a nutrire subito qualche dubbio sulla sua condizione servile, per il semplice motivo (ma guarda che idee strane avevano alla fine del  V secolo a. C. e ancora  nel secolo I d. C. i nostri amati Greci) che una bellezza quasi divina non può albergare nel corpo di una schiava, ma solo in quello di una donna libera, forse nobile, forse addirittura ninfa o naiade.
Poi viene scoperta una prima parziale verità in seguito alla confessione di Callíroe, che  ancora una volta parla di improvvisa ed accidentale caduta (
ex aiphnidíou pto̅́matos) e non del calcio sferratole dal marito, Tuttavia Dionisio ritiene ancora poco onorevole forzare in qualche modo Callíroe o farle violenza, L’amministratore Leona si impegna ad avvicinare Callíroe a Dionisio, ma in suoi tentativi, anche se abili, vanno a vuoto. L’autore delinea con una certa abilità un gioco psicologico complesso, nel quale si evidenziano le personalità dei protagonisti, tutte positive e desiderose del bene degli altri.
Dionisio, quindi, sempre più in preda alla passione d’amore, malgrado i suoi propositi filosofici di resistervi, su cui l’autore ironizza, si affida per sgretolare la fedeltà coniugale della donna, alle arti e all’astuzia non maligna di Plangon, la moglie di Foca, il fattore che alle dipendenze di Leona, conduce la proprietà e la villa di Dionisio, dove appunto Callíroe si trova. Plangon è donna matura ed esperta, conosce l’animo umano e sa attendere, ma anche architettare piani e sfruttare le occasioni. Insomma, sa che è conveniente adattarsi alle circostanze, come anche i saggi insegnano. È, tuttavia, anche profondamente umana.
Plangon, fra l’altro, scoprendo la gravidanza della ragazza, pensa subito che la circostanza rappresenta il punto debole di Callíroe, da sfruttare all’occasione, perché sa che alla fine l’amore per il figlio avrà la meglio sulla fedeltà di moglie. Prima la convince a non uccidere il nascituro, come Callíroe a un certo punto sembra decisa a fare, terrorizzata che il nipote di Ermocrate possa nascere in una condizione servile; poi, appreso che la gravidanza è al terzo mese, prospetta la possibilità e magnifica l’opportunità di far passare la creatura che nascerà come prole legittima di Dionisio, a patto di arrivare ad un matrimonio lampo, perché solo così si potrà sostenere che si tratta di un parto settimino.
Callíroe si oppone, resiste, poi tentenna, poi si convince, perché il desiderio e la speranza di dare al figlio un futuro pari al suo rango e pieno di prospettive e di felicità ha la meglio, come Plangon ha preventivato, sul principio della fedeltà coniugale. La bugia sarà a fin di bene, riflette Callíroe; Plangon è assolutamente d’accordo, perché in un colpo solo ha trovato la chiave per rendere felice Dionisio, dandogli una moglie desiderata e per di più e senza sforzo anche un figlio, pure nobile. Farà contente tre persone, Callíroe, Dionisio e il figlio che verrà. Una vera benefattrice.
Il nodo della vicenda, complice anche un sogno di Dionisio, sembra sciogliersi felicemente. Siamo nella dimensione e nel’atmosfera della Commedia nuova.   
Mentre Plangon tesse la sua rete, Dionisio in preda alla disperazione decide di fare testamento e di lasciarsi morire di fame. L’arrivo della donna che porta buone notizie lo distoglie dal proposito. Le parole di Callíroe, riportate da Plangon sono chiare: «Se mi vuole come legittima moglie, anch’io allora voglio diventare madre, perché la stirpe di Ermocrate abbia un discendente» (III 1, 6). Dionisio è felice ma, per via della opacità della situazione pregressa, sente odore dei guai e grossi da Siracusa e addirittura da Babilonia; quindi pensa a precostituire una giustificazione e una spiegazione credibili delle imminenti nozze in caso di contestazioni sul vero stato della donna. Alla fine mette su quello che sembra una specie di comunicato: «Io ho sentito dire  di una donna libera che è venuta a stabilirsi in città qui da noi, non so come; la stessa mi si è offerta in moglie e io l’ho sposata in città pubblicamente secondo le leggi, phanerõs  katà  nómous (III 2, 8). A Mileto si celebra un secondo splendido matrimonio: a Siracusa sembrava che si sposasse Artemide, qui Afrodite. Ma anche qui il dio invidioso non chiude occhio.
A Siracusa la cittadinanza è in subbuglio. Chérea, infatti, va alla tomba e la trova vuota. Vengono tirate subito le triremi in mare: Ermocrate esplora la Sicilia, Chérea la Libia, senza risultati, ma è la Fortuna al solito che risolve tutto. Per coincidenza i tombaroli, dopo la vendita di Callíroe, fuggono da Mileto e si dirigono a Creta, ma sospinti in direzione contraria dai venti di una violenta tempesta vanno alla deriva e muoiono di sete, tutti tranne Teròne, a cui la Provvidenza (Prónoia), che non è quella cristiana, riserva la giusta  punizione e la croce. Viene raccolto sulla nave alla deriva dagli uomini di Chérea e portato a Siracusa. La madre di Callíroe riconosce fra gli oggetti nella nave le offerte funebri della figlia ed Ermocrate decide subito di portare in giudizio Teròne, in un teatro strapieno, anche di donne.   Teròne arriva in catene e al seguito gli strumenti di tortura. Viene riconosciuto da qualcuno che lo ha visto a Siracusa nei giorni della tragedia: sottoposto a tortura resiste stoicamente, da autentico furfante, poi confessa e viene immediatamente impalato.
Una delegazione di cinque persone, compreso Cherea, viene inviata a Mileto. L’amico Policarmo si aggrega con un sotterfugio. La navigazione è favorevole e in pochi giorni la trireme attracca nello stesso tratto di costa utilizzato dai pirati. Qui Chérea, entrato nel tempio di Afrodite, vede il ritratto in oro di Callíroe, offerta votiva di Dionisio. Ha le vertigini e piomba al suolo. Viene soccorso da Policarmo e dalla vecchia sagrestana, dalla quale apprende che la donna del ritratto è viva e  altri non è che la moglie di Dionisio, il primo cittadino di Mileto e il padrone delle terre nelle quali la trireme è approdata. Su Chérea questa notizia ha un effetto devastante perché ha ritrovato la moglie, ma corre il concreto rischio di perderla per sempre.
Intanto il fattore Foca si avvede dell’arrivo della trireme, intuisce il pericolo per Dionisio e, senza avvisare il padrone passa subito all’azione. Assolda una masnada di barbari e li paga per incendiare la nave e uccidere gli uomini. Il compito viene assolto brillantemente da quei masnadieri, che uccidono molti marinai, mentre Cherea e Policarmo vengono fatti prigionieri e venduti a Mitridate, satrapo di Caria, perché lavorino in catene nelle sue terre.
Callíroe, ignara di tutto, sogna Chérea incatenato (quindi morto, per la simbologia del sogno) e ne pronuncia nel sonno il nome. Come sempre accade, il marito lo sente e viene a scoprire un tassello mancante e preoccupante della verità. Intanto nasce il bambino (l’autore non dice cosa pensasse nel profondo Dionisio), ufficialmente legittimo e settimino. Callíroe astutamente fa liberare Plangon, l’unica che conosce tutta la verità; lo fa per riconoscenza, ma sa anche che da libera non potrà essere torturata per farla confessare. Viene anche celebrata una grande festa in onore di Afrodite. Callíroe, entrata nel tempio in compagnia della sola Plangon, prega la dea di salvarle il figlio e di farlo crescere degno e più forte del nonno Ermocrate, sì che possa da grande comandare una trireme ammiraglia. Dalla vecchia apprende dell’arrivo dei due giovani e subito sospetta la verità. Informa di tutto, ad arte, Dionisio, perché sa che il marito per gelosia farà fare subito delle indagini per accertare i fatti. Dionisio, infatti,  chiama subito Foca per dargli incarico di fare ricerche e al contempo lo mette alle strette, minacciandolo di tortura. Al fattore non resta che confessare tutto. Dionisio è felice e Foca, poco prima in pericolo di lasciarci le penne, diventa suo salvatore e benefattore. Però Dionisio non è del tutto tranquillo e fa notare a Foca che ha commesso un errore, cioè non ha controllato se Chérea fosse morto o fosse tra i prigionieri. Anche a Callíroe viene raccontata la storia e vien fatto credere che Chérea è morto. Versione plausibile e del tutto credibile. La donna si lamenta pateticamente con Afrodite: «Mi hai privato del coetaneo, concittadino, amante, amato, novello sposo. Rendimelo, anche se morto» (IV 10, 7-8) e poi con il mare: «Mare impuro, tu hai condotto Chérea a Mileto perché fosse ucciso, e me perché fossi venduta schiava (ibidem).
A Chérea, come a Callíroe a Siracusa, viene eretto un magnifico cenotafio a Mileto, vicino al mare, alto e visibile «hypselòn kai arídelon». Al funerale, oltre a tutta la Ionia, partecipano anche Mitridate, satrapo di Caria e Farnace satrapo di Lidia, interessati soprattutto a vedere Callíroe. La bellezza colpisce ancora e Mitridate rimane fulminato. La Fortuna intanto gioca la sua partita: Callíroe seppellisce Chérea e Chérea lavora in catene nelle terre di Mitridate, che frattanto è abbacinato   dallo splendore della donna che è moglie di Donisio per regolare matrimonio, ma anche, stando alle carte (certificati di matrimonio e di morte), ex moglie, e al tempo stesso moglie di Chérea.
I due amici, coinvolti nella punizione in seguito a  un tentativo di fuga dei compagni, vengono condotti al supplizio. Cherea, reggendo la sua croce,  procede in silenzio, ma l’amico Policarmo ad un certo punto esclama: «Per causa tua, Callíroe, ci troviamo in questa situazione». (Il modello è chiaramente l’episodio erodoteo (I 86, 3) di Creso che sulla pira invoca tre volte il nome di Solone e viene da Ciro salvato).
L’intendente, credendo che si tratti del nome di una complice, conduce Policarmo da Mitridate alle prese col suo mal d’amore. Policarmo racconta tutta la storia e così viene fuori anche il nome di Chérea. Egli ottiene la libertà e i due uomini vengono a conoscenza della parte di storia che ignorano; in particolare Chérea viene a sapere del matrimonio e del figlio. Quella notte né Chérea né Mitridate dormono, Chérea per l’ira, Mitridate per la speranza di spuntarla trai due contendenti.
Mitridate per prima cosa convince Chérea a scrivere una lettera alla moglie per informarla che, ad opera di Mitridate, è vivo in Caria. Mitridate affida la lettera al suo amministratore Igino e però gliene affida in segreto anche una sua. Per una serie di sfortunate circostanze le lettere pervengono, invece, a Dionisio mentre banchetta. Si sente crollare il mondo addosso; ondeggia tra collera, scoramento, paura, sfiducia. Ad ogni buon conto organizza una vigilanza accurata. Poi, alla ricerca di un sostegno, scrive a Farnace, governatore della Ionia e della Lidia, rivelandogli le intenzioni di Mitridate. Farnace scrive a sua volta a Babilonia al Gran Re e gli espone la complicata situazione e il tentativo di Mitridate di sedurre e corrompere Calliroe, di cui non tace la stupefacente bellezza. Il Gran Re, sia per dovere istituzionale sia perché incuriosito, convoca gli attori della vicenda: Dionisio con la moglie e Mitridate. Quest’ultimo è terrorizzato, perché nel frattempo è venuto a conoscenza del disguido e sa che Dionisio è in possesso della sua molto compromettente lettera. Pensa addirittura di disobbedire, ma poi, avendo saputo che anche Callíroe va a Babilonia, vinto dalla passione, si decide a partire e a rischiare anche l’osso del collo, pur di rivedere la donna. Ma si premunisce portando con sé Chérea e Policarmo come testimoni chiave. Dionisio non sa e non può sapere nulla  di ciò. Tutti i protagonisti con stati d’animo diversi si mettono in viaggio: gli  uomini hanno contezza della situazione,  Callíroe invece è all’oscuro di tutto, si meraviglia della cosa, ma segue il marito.
Durante il viaggio, finché si trova in terre dove si parla greco rimane serena, ma quando raggiunge l’Eufrate, che segna una barriera territoriale e linguistica, ha una crisi psicologica, si abbandona a un patetico soliloquio in cui, convinta che da quel viaggio non tornerà indietro, lamenta le sue sventure e  il destino che la sta conducendo alla morte in terra straniera. Comunque tutti i protagonisti raggiungono Babilonia; Callíroe, preceduta dalla fama della bellezza. Dionisio non ha torto di preoccuparsi, solo al pensiero di quanti pretendenti potrebbero apparire in una metropoli come Babilonia. Ha l’accortezza di farla viaggiare nell’ultimo tratto del viaggio in un baldacchino chiuso, ma la notizia ormai corre. Così i suoi piani sono sconvolti da un evento non previsto. Le donne di corte vanno dall’imperatrice Statira, donna bellissima, e riferiscono di Callíroe, pur affermando che si tratta di dicerie, opera di quei millantatori e pezzenti che sono i Greci. Le persiane – sostengono - sono più belle. Così organizzano una specie di gara di bellezza. Scelgono come loro rappresentante Rodogùne, sorella di Farnace, perché incontri la straniera e con la sua bellezza ne offuschi lo splendore. Ma all’incontro in un delirio di folla, accade tutto il contrario.
                                                                                                (continua)

 
 

III

 

Il giorno stabilito per l’udienza, nella sala-tribunale della reggia vengono introdotti Mitridate e Dionisio. La scena del processo, punto culminante di una suspense che è venuta crescendo con bella climax, è superiore a qualsiasi altra che si trovi in un romanzo greco antico. Tutti i fattori della situazione sono davanti al lettore, che è l’unico con l’autore a sapere tutto quello che è avvenuto, ma non sa ancora quello che avverrà, al contrario dell’autore, che è colui che predisporrà le sorprese, che possono venire solo dal comportamento dei personaggi. Siamo condotti in un’aula di tribunale e a un tempo in teatro, sulla scena.
Dionisio, come accusatore, parla per primo, ma mentre è sul punto di iniziare il suo discorso d’accusa, Mitridate con un primo colpo di scena richiede in aula la presenza della donna oggetto della contesa (V 4,9). Segue una schermaglia giuridica, ma alla fine la richiesta di Mitridate viene dichiarata legittima e anche Callíroe viene convocata. Dionisio, terrorizzato, chiede  e riesce a ottenere il rinvio del dibattimento al giorno dopo, perché ha bisogno di un po’ di tempo per rivelare a sua moglie il vero motivo del viaggio a Babilonia. Callíroe, frastornata dalle notizie, trascorre una giornata e una notte in grande agitazione, ma anche Dionisio non ha di che stare allegro.
L’indomani, nel tribunale gremito, Callíroe entra come Elena  sulle mura di Troia nel terzo dell’Iliade e l’autore ironicamente osserva che anche a Babilonia «tutti si augurano di distendersi sul suo letto»
(α 366), come i pretendenti  di fronte a Penelope nella reggia di Ulisse.
Aperta l’udienza, prende la parola Dionisio, che in bello stile lisiano racconta tutta la storia e, ignorando la presenza di Chérea, accusa apertamente Mitridate di adulterio. Sicuro di vincere la causa, conclude con queste parole in cui aleggia l’ironia tragica: «Ho esposto il racconto dei fatti su cui tu devi dare il giudizio. Sono argomenti a cui non si può sfuggire: delle due cose l’una, o Chérea è vivo, o Mitridate è reo di adulterio, E non può neppure dire questo, che ignora che Chérea sia morto: quand’era presente a Mileto, noi lo abbiamo sepolto nella tomba, e lui si era unito al nostro dolore. Ma quando Mitridate vuol commettere adulterio, resuscita anche i morti. Smetto dopo aver letto la lettera che  costui ha inviato a Mileto dalla Caria, per mezzo dei suoi servi. Prendi e leggi: "Sono Chérea e sono vivo". Dimostri questo Mitridate e sia assolto. Ma considera, o Re, come sia impudente l’adultero, dal momento che mente anche servendosi di un morto» (V 6, 9-10). L’effetto del discorso, che sembra poggiare su basi inconfutabili, è notevole e tutto il pubblico inclina per Dionisio e anche il Re rivolge a Mitridate un’occhiata poco rassicurante.
Ma anche Mitridate appare sicuro di sé e si difende argomentando con pari eloquenza e persuasiva sottigliezza. Sembra di stare in un tribunale attico: «Forse, se fossi consapevole di aver fatto del male, avrei potuto anche  opporre un’eccezione al processo. Dionisio infatti non ricorre in giudizio per la moglie sposata secondo le leggi, ma l’ha comprata al mercato dove era in vendita, e la legge sull’adulterio non riguarda gli schiavi. Ti legga prima di tutto il documento attestante la manomissione, e poi parli di nozze … Innanzi tutto mi accusa di un adulterio non avvenuto, ma futuro, e non avendo da citare dei fatti, legge lettere inutili. Ma le leggi puniscono i fatti» (V 7, 4-6). Poi, rivolgendosi più direttamente a Dionisio: «Io avrei potuto dirti:"Non l’ho scritta io, non è la mia mano; Chérea cerca Callíroe: si giudichi dunque lui per adulterio. "Sì" dice. "Ma Chérea è morto, e col nome del morto mi hai disonorato la moglie"» (ib., 6-7). Poi, sempre più sicuro: «Mi presenti un’intimazione, Dionisio,  che non ti giova affatto … Rinuncia all’accusa, ti conviene … Ritratta … Se insisti ti pentirai … perderai Callíroe. Non me, ma te il Re scoprirà adultero» (ib.,7).
Persistendo Dionisio nella sua posizione, dato che ignora che Chérea è vivo, Mitridate mette a segno il suo colpo di teatro, l’aprosdóke̅ton , il fatto inatteso e non prevedibile, che sembra decidere l’agone. Fa entrare Chérea fra lo stupore dei presenti, lo sbalordimento di Dionisio, lo sbigottimento di Callíroe che guarda Chérea con gli occhi sbarrati. La difesa di Dionisio crolla e poiché stranamente egli non usa la prova vincente, cioè la seconda lettera effettivamente inviata da Mitridate a Callíroe, che dimostrerebbe, questa sì,  il tentativo di seduzione, il Re non può fare altro che assolvere Mitridate e incardinare un nuovo processo fra i due mariti rivali, per decidere a chi assegnare la moglie.
Intanto il Re si innamora di Callíroe e desiderando prolungare il suo soggiorno a Babilonia, per insidiare Callíroe,  rimanda continuamente la data, finché ancora una volta ci pensa la Fortuna: una improvvisa sollevazione degli Egiziani (dovrebbe essere storicamente la rivolta del 360 a.C., liberamente antedatata) lo costringe ad andare in guerra e a rimandare sine die il processo. In questa marcia si porta appresso Statira e tutte le donne di corte,  e con esse Dionisio e Callíroe.
Chérea, credendo alla falsa notizia che Callíroe sia stata assegnata a Dionisio, si unisce ai ribelli e si mette in luce da comandante in capo con la presa di Tiro, un’impresa degna di Alessandro Magno, che effettivamente la realizzò (332-331 a. C), un’ottantina di anni dopo le vicende narrate nel romanzo. Conquista anche l’isola di Arado, dove Artaserse aveva lasciato la sua corte e così Chérea ritorna in possesso di Callíroe. Egli all’inizio ignora che tra le prigioniere c’è sua moglie, né lei sa chi sia il comandante dei vincitori, sicché il gioco della Fortuna permette all’autore  di utilizzare la corda dell’ironia drammatica.
La vicenda, comunque, con l’ottavo libro, si avvia allo scioglimento felice e alla catarsi delle malvagità  avvenute e raccontate nei libri precedenti, tò teleutaĩon toũto sýgghramma  … kathársion gár esti tõn en toĩs pro
tois skythropõn (VIII 1, 4). Siamo addirittura in ambito aristotelico: tragedia e catarsi.
L’anagnorisis degli innamorati è descritta felicemente dall’autore che inizia il racconto con una perla letteraria, riprendendo un celebre incipit di Demostene, quando descrive l’arrivo ad Atene della notizia della sconfitta ateniese a Elatèa, (de cor. 18, 169): «Hespéra mèn ên…», «Era la sera…», lodato dall’Anonimo come esempio di Sublime (X 7).
Il riconoscimento all’unisono è patetico e liberatorio: «Chérea! Callíroe! … Sei mia, Callíroe, se sei veramente Callíroe; sei mio, se sei veramente Chérea» (VIII 1, 10), come solo in Eliodoro (II 6, 3), qualche secolo dopo, quando  Cariclea e Teagene si ritrovano. Ma sospetto che l’emesano abbia imitato Caritòne, anche perché è probabile che la scena del riconoscimento fosse già diventata un topos. A un verso dell’Odissea (XXIII 296), riguardante Penelope e Ulisse, è affidato il sigillo dell’eros coniugale: lieti obbediamo alla legge dell’antico talamo.
Intanto gli eventi si dipanano perché Týche continua a girare la sua ruota, sarebbe il caso di dirlo, oltre la difension dei senni umani. Da un messo egiziano Chérea viene informato che il Gran Re ha sconfitto i ribelli e ucciso il loro capo e, quindi, che per i ribelli è forse meglio patteggiare la resa. E, cosa non meno importante, apprende che ad Arado fra i prigionieri si trova Statira, la moglie del Re. La situazione si fa pericolosa e su consiglio di Callíroe, che in breve tempo è profondamente maturata, Chérea salpa per Pafo nell’isola di Cipro, dove si trova un celebre santuario di Afrodite, la dea onnipresente nel romanzo.
Convocato il consiglio di guerra, su proposta di un esule spartano, parente nientemeno di Brasida, si decide di fare vela per Siracusa (VIII 1, 10), al riparo di ogni possibile ritorsione persiana. Callíroe, che già a Babilonia aveva stretto una sincera amicizia con Statira e Rodogùne, destinate ora a essere sue ancelle,  esorta Chérea a  restituirle al gran Re ed è lei stessa che va ad annunziare alle due donne la loro liberazione.
Chérea sceglie le venti triremi migliori, vi fa imbarcare i greci  e fa stivare il grosso bottino conquistato. Fa imbarcare anche gli egiziani, non tutti ma semplicemente i volontari (VIII 2, 14). Questo recupero romanzesco del dato storico contiene una notazione interessante, perché sembra che Caritòne, che è scrittore molto colto, come abbiamo ormai capito, non solo conosca i rapporti e le influenze intercorsi tra Egitto e Sicilia, ma sappia anche di una presenza egizia in Sicilia e a Siracusa in data ben più alta di quella ellenistica, sì da poterla con verisimiglianza inserire molto naturalmente a fine quinto secolo.  Callíroe e Statira si salutano una prima volta con profonda commozione. Poi Callíroe scrive una lettera a Dionisio in segno di riconoscenza per la lealtà e l’amore che le ha sempre dimostrato: lo saluta affettuosamente, gli affida il bambino, pregandolo di mandarlo a Siracusa, quando diventerà uomo (recupero romanzesco forse, anche questo, di Dionisio I). E conclude: «Sta’ bene, buon Dionisio,  e ricordati della tua Callíroe» (VIII 4, 6), dimostrando di non rinnegare l’esperienza fatta, ma di considerala una tappa importante della sua esperienza di vita. Poi affida la lettera a  Statira e la prega di vegliare sul figlio (che in verità nel romanzo non è detto dove in questo momento si trovi) e la saluta con sensibilità degna di Saffo e con affetto tutto femminile: «Addio, Statira, e ricordati di me, e scrivimi spesso a Siracusa». Conferma questa di una caratteristica importante e significativa del romanzo, cui abbiamo accennato, cioè che il romanzo è soprattutto un romanzo di donne e destinato alle donne.
Statira mantiene la promessa e chiede al Re di consolare il povero Dionisio. Il Re lo convoca e gli racconta gli eventi. Dionisio, da vero greco, dimostra saggezza e perfetta educazione, si dimostra cioè uomo civile e conscio dei limiti umani. Il Re non può che riconoscerne il valore e   lo nomina governatore della Ionia e primo benefattore della casa imperiale. Anche la lettera di Callíroe raggiunge il destinatario; certo la lettura gli provoca sentimenti contrastanti, che egli controlla da saggio quasi senecano, il quale sa che se è del sapiente opporsi alla Fortuna è altrettanto vero che parere necessitati semper sapientis fuit, Non rimane che affrontare il destino, pur con qualche rimpianto per quello che poteva essere e non è stato, e ricominciare la nuova vita.
Intanto Chérea naviga con le sue venti triremi verso Siracusa. Quando la flotta viene avvista, i Siracusani, memori dell’attacco ateniese,  temendo che si tratti di una flotta di invasione, avvertono subito Ermocrate, che invia una scialuppa a controllare. Il convoglio viene bloccato e solo alla trireme di Chérea viene consentito l’ingresso nel porto. Chérea e Callíroe si apprestano a celebrare il loro trionfo. Sul ponte della nave c’è una tenda coperta da drappi babilonesi e tutti pensano che dentro ci siano le stoffe e merci preziose del  bottino. All’improvviso, con gesto teatrale, essendo stati tolti i drappi, appare una scena di tipo orientale o nilotica: «si vide Callíroe distesa su un letto lavorato in oro, con indosso una porpora tiria» e vicino a lei Chérea: sembra un gruppo statuario di Marte e Venere  anadiomene. Si tratta, mi sembra, un’apoteosi, che promette felicità eterna ai due giovani e forse anche alla città.
La Fama vola. Viene condotto il vecchio padre di Chérea, arriva Ermocrate, la città è in festa, viene sbarcato il prezioso bottino «sicché  la città fu piena, non come in precedenza, dopo la guerra di Sicilia, della povertà attica, ma, cosa inaudita, del bottino dei Medi» (VIII 6, 12).
Viene convocata la solita assemblea in teatro e Chérea è costretto a raccontare tutta le vicende orientali. L’ordine naturale si va lentamente ricomponendo e Chérea dà all’amico Policarmo, che non viene neppure interpellato,  in moglie la sorella, che non ne sa assolutamente niente. Ma così va il mondo o andava  a Siracusa nel secolo quinto.
Callíroe, prima di tornare a casa, va nel tempio di Afrodite a ringraziare e a pregare la dea, perché fissi il "presente" nella dimensione del "sempre": «Ti chiedo di non separarmi più da Chérea, ma concedici una vita felice e una morte comune» (VIII 7, 16). Un piccolo codice, scritto in Cappadocia, lo ha reso possibile, almeno nel tempo degli uomini.
La sphragís finale, tucididea, rivela quanto il romanzo greco debba anche alla storiografia.
                                                                                      
                                                                                              

 

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