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L'attività sociale > 2020 - Divagazioni I
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

 
 
 

Sebastiano Amato

 


I poteri speciali a chi servono e sono invenzione moderna?

 

      

      Si fece un gran parlare qualche mese fa e oggi, in questi tempi grami e depressi di Coronavirus imperversante e vincente sui campi di battaglia, si continua parlare, in Italia, in Europa e forse nel mondo, di decretazioni d’urgenza, di poteri eccezionali, più o meno pieni, meglio se assoluti e quasi dittatoriali,  da concedere, attribuire, assegnare, per "via democratica" si intende,  a qualcuno, a un sotér, che ci porti fuori con mano sicura e mente sagace dal pelago ignoto e pauroso del Covid19. Alcuni, che hanno maggior commercio con i libri, potrebbero precisare, definitivi, in virtù del latinorum, che si tratta di un provvedimento a tempo «ne quid detrimenti res publica capiat». Non so se qualcuno l’ha veramente fatto, se sì, ha conquistato certo il rispetto degli sbalorditi ascoltatori. Al solito, stiamo all’Italia e alla nostra Siracusa.
    Quelli che li chiedono o li invocano con passione o li avversano fieramente sono certo tutti legittimi rappresentanti del popolo o "pensatori" che pensano di rappresentarne le esigenze, o in tutto o in parte, ma il popolo, il detentore legittimo e nominale del potere e della sovranità, anche se ne ha fatto delega ai suoi rappresentanti, che pensa, che fa, che dice? Non parla, mi sembra, per ora, parlano, invece, politici e intellettuali: qualcuno teme e parla di attentato, di eclissi, più o meno temporanea dei diritti inviolabili dei cittadini,  e in qualche caso evoca una fine fosca della nostra democrazia, altri invocano l’eccezionalità della situazione, siamo a tal punto «ut nullo alio modo ratio constet  quam si uni reddatur»,  il latino, stavolta di Tacito, aiuta sempre: siamo in guerra e ci vuole uno solo al comando. La scelta avrebbe qualche rischio, ma sarebbe una panacea: la grande battaglia d’arresto contro il Coronavirus sarebbe senza dubbio vinta, il nemico, terribile e pernicioso, per non dire pestifero, sarebbe inesorabilmente avvolto, insaccato, distrutto.
    Comunque stia e si sviluppi il dibattito de re publica e de civibus servandis, rimane da risolvere il problema dei problemi: chi? Problema insolubile, visti i risultati conseguiti in Italia "dagli uomini soli al comando" con le doverose eccezioni, quella recente del sig. Fausto Coppi, e quella un po’ più vecchiotta, del nipote del divo Giulio, che hanno eccezionalmente dimostrato, come alcuni altri, che talvolta da soli si fa meglio che in molti.
    A questo punto, però, i pareri sarebbero ancor più discordi e discordanti, opposti e irriducibili. A togliere dal conto i bambini e le bambine sotto i dieci anni, ad occhio e croce, potremmo contare circa cinquantacinquemilioni di giudizi e di opinioni. Pensate quanti: «Ma perché questo e non quello?», «Sì certo, ma il punto è un altro», che significano, sempre restando nel campo semantico dei pronominali: «A questo punto, perché non io?». Un dibattito di proporzioni bibliche, che potrebbe essere concluso solo con "un giudizio di Dio", ovviamente nella valle di Giosafat. Il che, credo, ci fa dormire, tutto sommato, sonni tranquilli.
   Riflettendo (!) su queste piacevoli amenità, mi è venuto di pensare, come in questi tempi mi capita spesso, alla nostra Siracusa, quando essa, non ancora vecchia signora ripiegata su se stessa, batteva moneta, era cioè una polis. E non proprio casualmente sono andato a riprendere un episodio di 2416 anni or sono.  A dire il vero, allora il problema era speculare, perché si trattava di togliere il potere assoluto a qualcuno, che era un osso duro, e non di conferirglielo, ma nella sua specularità  esso, mutatis mutandis, può ancora interessare il lettore moderno in cerca di divagazioni in questi momenti calamitosi. Lo leggiamo in Diodoro Siculo, XIV, 64-70, che attinge quasi sicuramente a Timeo di Tauromenio, dichiarato avversario di tiranni, di Agatocle in primis e di Dionisio per estensione. Non si può escludere qualche influenza di Eforo, più o meno mediato attraverso Timeo. Ne voglio chiacchierare brevemente con i miei sympolîtai.
     Nell’estate del 396 a. C., dopo la disastrosa perdita di Messene e la disfatta nella battaglia navale  di Katane, mentre i Cartaginesi raggiungevano Siracusa per assediarla, la situazione della città e del suo leader, Dionisio, divenne veramente difficile, per non dire disperata. I Cartaginesi si erano accampati al solito Olympieion e tenevano la flotta dentro il Porto grande. I Siracusani, però, non si erano persi d’animo e in assenza di Dionisio, salpato con Leptine  per trasportare dei rifornimenti in città, avevano ottenuto una brillante vittoria navale e, inorgogliti per la vittoria, cominciarono a discutere se non fosse il caso di dare il ben servito al loro strategós, cioè il sopra nominato Dionisio. Riflettevano che Dionisio aveva abolito ogni libertà, che aveva impegnato Siracusa in una guerra perenne, ma soprattutto che con lui avevano sempre perso, e senza di lui avevano vinto e, infine, cosa non secondaria, che ora a causa della guerra erano armati e prima, invece, no.
    Mentre fra le classi agiate serpeggiava il fermento, Dionisio, di ritorno a Siracusa, convocò un’ekklesìa, nella quale elogiò i suoi concittadini per il coraggio dimostrato e la vittoria conseguita,  e promise che «in poco tempo avrebbe concluso la guerra». Sicuro del fatto suo, stava per sciogliere l’assemblea, quando con coraggio si alzò a parlare un certo Teodoro «che godeva di buona reputazione  e aveva fama di essere uomo d’azione (praktikòs)». Era, quindi, un rappresentante degli avversari di Dionisio, i più ricchi, gli aristocratici,  gli imprenditori, i commercianti, gli armatori ed è naturale che il suo discorso rappresenti quasi una summa  della tradizione timaica confluita in Diodoro. Al centro stanno i poteri speciali, tirannici quasi, detenuti da Dionisio, al limite, se non al di fuori della legalità, che gli avversari vorrebbero revocargli, magari per accopparlo, lo stato continuo di belligeranza che prolunga le condizioni di eccezionalità e  favorisce i provvedimenti assunti da Dioniso quasi autocrate,  e la restrizione della libertà; tutte cose inaccettabili agli occhi di questi cittadini. L’intervento diventa un  discorso sulla libertà e per la libertà, con concetti e stilemi di ascendenza isocratea, che animano un po’ lo stile di Diodoro.  Non per niente la parola eleutherìa compare molte volte e rappresenta un universo politico e concettuale opposto alla concezione del potere di Dionisio. Bisogna, però, ricordare che il sistema vagheggiato da Teodoro e dai suoi è ben diverso dalla democrazia quale oggi la pensiamo e tentiamo di praticarla. Basti pensare che esso, a conti fatti, escludeva praticamente dall’esercizio del potere proprio il popolo, blandito, invece, da Dionisio.
    L’oratore fa un lucido esame della natura del potere di Dionisio e ne stigmatizza la dimensione tirannica, che non tende al bene dei cittadini, ma cerca di privarli della libertà e della legislazione dei padri. Egli non è più un magistrato con poteri speciali, ma un despótes, un padrone,  peggiore dei Cartaginesi. Egli risponde alla fiducia dei cittadini con l’inganno, non avendo a cuore il bene, ma l’asservimento della patria (patrís).  Ha abolito le leggi patrie, come fa un monarca (mónarchos); ha abolito la libertà personali (eleuthería) e la libertà di parola (parrhesía), come fa un tiranno (týrannos), cose che i Cartaginesi vittoriosi non farebbero, perché si accontenterebbero di riscuotere il tributo. Egli non fa altro che utilizzare il pretesto della guerra contro i Cartaginesi in difesa delle città greche per avere poteri eccezionali e fa la guerra per mantenerli e per evitare che i Siracusani si ribellino, proprio per paura della guerra, e quando, come ora,  vuole veramente  la pace, la vuole non per salvare Siracusa e i Sicelioti, ma per accordarsi con Cartaginesi a danno di Siracusa e dei Sicelioti.  Infatti i mercenari assoldati non servono per combattere il nemico, ma per controllare i cittadini e l’acropoli non difende Siracusa da attacchi esterni, ma è un baluardo contro città (la storia si ripete: anche i cannoni borbonici avevano le volate rivolte all’interno, contro i Siracusani e non all’esterno). Egli «domina la città non come arbitro di giustizia, ma come un monarca che pensa ad agire sempre nel suo interesse» (65,3).
    Contesta poi la propaganda dell’entourage del tiranno che lo paragonava a Gelone, proponendo una realtà ben diversa, anche se un po’ idealizzata. Gelone, con l’aiuto e il valore dei Siracusani liberò tutta la Sicilia, Dionisio, «che aveva ricevuto tutte le città libere, non solo ha dato in potere ai nemici tutte le altre, ma persino asservito la patria» (66, 1-2). Gelone liberò i Sicelioti dai Cartaginesi, Dionisio è fuggito da Mozia, attraversando in fuga  tutta la Sicilia e, conducendo la campagna in maniera vergognosa, ha abbandonato Gela e Camarina, ha lasciato che Messene venisse rasa al suolo, ha perso ventimila uomini nella battaglia navale di Katane e, terrorizzato, non ha colto l’opportunità di un contrattacco che avrebbe potuto mettere in gravi difficoltà Imilcone. Infine si è richiuso dentro Siracusa. Ha inoltre, in tempo di pace, ridotto in schiavitù Naxos e Katane, distruggendo addirittura la prima e concedendo ai mercenari Campani la seconda. Ha combattuto due battaglie campali, perdendole entrambe. Altro che Gelone. Ancora peggio ha fatto a Siracusa. Alla fiducia dei cittadini ha risposto rendendoli schiavi, facendo uccidere i difensori delle leggi e mandando in esilio gli avversari (i ricchi), insomma sconvolgendo l’ordine sociale della città. I Siracusani, immemori del passato, assistono inerti a questo scempio. Ma ora è tempo che si metta fine sia alla guerra esterna che alla tirannide interna. Dionisio deve o rinunciare al potere o essere destituito. Lo si può perché sono tutti riuniti e armati. L’oratore conclude che è tempo di dare il comando  ai cittadini «in osservanza alle leggi», e fin qui tutto bene. Poi però aggiunge qualcosa che ripropone sempre quello che chiamo il limite siracusano. Aggiunge Teodoro che in seconda istanza bisogna darlo: «o ai Corinzi che vivono nella madrepatria, o agli Spartiati che sono alla testa della Grecia» (69,5). Ora, se nella prima ipotesi possiamo scorgere un lontano preannuncio dell’arrivo del hieròs an
ḗr Timoleonte, nella seconda era nascosto un rischio grave, perché un navarco lacedemone  inviato da Sparta era presente a Siracusa, Faracida, un Gilippo dimidiatus, ma che rappresentava un aiuto fondamentale per lo spaventato Dionisio. Fu, infatti, proprio lo spartano che salendo sulla tribuna gelò le attese degli oppositori, affermando che era stato mandato dai Lacedemoni per combattere al fianco dei Siracusani e di Dionisio contro i Cartaginesi, non per abbattere Dionisio. Il che significava un netto no alle pretese di Teodoro e una legittimazione ufficiale del potere del tiranno da parte della potenza egemone della Grecia. Il tentativo abortì prima di iniziare. Amaro il commento dello storico di Agirio: Faracida tradiva le aspirazioni dei Siracusani come qualche tempo prima un altro navarco spartano, Arete,  aveva fatto (Diodoro ne parla a XIV, 10).
    Vorrei concludere alla maniera di Esopo, ma siamo nella settimana santa e allora credo sia opportuno concludere con un versetto di Matteo : «Qui potest capere, capiat» (19,15) o se vi è più familiare con quello di Marco: «Qui habet aures audiendi, audiat» (4, 9).
Buona Pasqua a tutti.

 

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