- SSSP

Cerca
Vai ai contenuti

Menu principale:

L'attività sociale > 2020 - Divagazioni I
 
 


Divagazioni al tempo del Coronavirus

 
 
 

Sebastiano Amato

 


Manie letterarie e vicende di tiranni e di poeti alla corte di Siracusa

 
 

Si sa, Dionisio il primo, il grande, cercando da una parte di esercitare al meglio il suo ruolo di týrannos, o, come preferiva, di re, nel quale credeva molto, e dall’altra di dare pionieristicamente forma a qualcosa che assomigliasse a uno stato territoriale, trascorse quasi tutta la sua vita, in politica estera a fare guerra e stipulare trattati di pace con i Cartaginesi e a trasferire popolazioni da una polis all’altra, e in politica interna a vessare e tassare i Siracusani e a trattare male i filosofi. Non sorprende, quindi, che la tradizione sia avversa al tiranno e che ad Atene, che aveva avuto quasi sempre un atteggiamento ostile nei suoi confronti, negli ambienti dell’Accademia, del Peripato, dei poeti della commedia di mezzo, ma anche nell’agorà e fra i banchi dei trapeziti e nelle botteghe dei barbieri, siano fioriti pamphlet politici, libelli diffamatori, saggi più o meno filosofici, semplici dicerie, che diffondevano fra qualche notizia vera molte falsità e invenzioni tendenziose. Si trattò di un laboratorio di quelle che oggi corrono, non so perché, sotto il nome di fake news. Molto di questo materiale passò attraverso  le storie di Timeo e raggiunse anche Cicerone e gli eruditi di età imperiale, specialmente di lingua greca. E probabilmente il fenomeno non fu solo ateniese. In queste condizioni anche la cronologia dei singoli fatti, se pure talvolta veri, risulta traballante. Comunque, anche così, le notizie sono significative perché concorrono a delineare il giudizio morale sul tiranno, al di là della realtà storica, a formare cioè l’archetipo del tiranno. Dionisio, invece, non fu quale queste fonti lo rappresentano; certo non era quel che si dice uno stinco di santo, ma est modus in rebus.  
Non possiamo discutere qui di questi problemi, a noi basta dire che, accanto alle indubbie qualità militari e politiche e a una concezione del potere priva di ogni limite e freno inibitorio, possedeva anche appropriata cultura letteraria e forse filosofica e gran trasporto per la poesia. Aveva, come si dice, una personalità complessa, alimentata naturaliter da una buona dose di egocentrismo, che lo spingeva a considerarsi un grande poeta, sì da ripetere che le sue imprese poetiche erano superiori a quelle militari. Il risultato era che nutriva una passione maniacale soprattutto per la sua poesia, come racconta Diodoro Siculo (XIV 109,1).
In questo gli assomigliò molti secoli dopo un tal Cardinale Richelieu, che anche in fatto di "sentire di sé" non gli fu secondo. E nutrendo questa passione profonda   Dionisio acquistò addirittura la tavoletta per scrivere di Eschilo e, per non farsi mancare niente, anche quella di Euripide. "Non si sa mai", avrà pensato.
Quando venne celebrata la novantottesima Olimpiade (un’antenata della nostra del 2020 andata in fumo) nell’estate del 388, inviò ad Olimpia con gran spreco di danaro parecchie quadrighe velocissime e splendidamente addobbate; il che era nell’ordine naturale delle cose, sebbene Lisia, figlio di Cefalo, siracusano, ma che a Siracusa non era nato e non era mai stato, la pensasse ben diversamente. Ma inviò anche, e questo può sembrare un po’ stravagante, i migliori rapsodi a presentare le sue composizioni e rendere il suo nome famoso in una festa panellenica. Il fratello Tearide fu incaricato di curare la regia e l’organizzazione dell’esibizione. Lo fece bene e la recita dei versi ad opera dei rapsodi molto bravi e intonati sembrò decretare all’inizio il successo letterario del týrannos, ma poi il pubblico, (forse anche sobillato dal già ricordato, malefico Lisia, che non lo stimava né come týrannos  e tanto meno come poietés), percependo la pochezza dei versi, cominciò a deridere Dionisio «a tal punto che alcuni arrivarono persino a strappare le tende» (D. S. XIV 109, 2).
L’insuccesso, comunque, non scoraggiò Dionisio, che fino alla morte continuò a scrivere tragedie e come tale lo ricorda Cicerone nelle Tuculanae Disputationes V, 22. Di questa intensa attività rimangono alcuni titoli: Adone, Alcmena, Limo o Lino(di incerta natura) e qualche verso di altre tragedie perdute e non identificate, diligentemente raccolti da Nauck. Era estroso inventore di stravaganti neologismi, come ci attesta lo storico Atanide in Ateneo, I sofisti a banchetto, III 98 c-d, con giudizio negativo. E comunque in un frammento di una delle sue tragedie rimane il verso famoso «la tirannide infatti è madre di ingiustizia (e gàr tyrannìs adikías mēter éphy)» (T.G.F. fr t. 4-12  Sn.).
Poco prima di morire la sua perseveranza fu, tuttavia, premiata e nel mese di gamelione (gennaio-febbraio) del 367 ad Atene vinse alle Lenee con una tragedia dal titolo Il riscatto di Ettore, non tanto per le capacità poetiche quanto per alcune benemerenze politiche nei confronti di Atene, testimoniate da tre decreti giunti fino a noi in lapidi, con uno dei quali nel 368 (Tod 133) si concede al tiranno e ai figli la cittadinanza, che Lisia non poté mai ottenere. Tradizione vuole che, felicissimo all’annunzio della vittoria, organizzò alcuni banchetti per celebrarla e in uno di questi si ubriacò tanto che si ammalò e poco dopo in primavera morì (D. S. XV 74, 2- 4), sebbene voci più informate suggeriscano che i medici insieme con il sonnifero gli propinarono un veleno (Plu., Dione, 6,2), notizia confermata in parte dal più generico Giustino (XX 5, 14).
Il successo non gli evitò gli strali dei detrattori, di Eubulo e di Efippo in particolare, poiché il primo lo mise in ridicolo in un dramma intitolato Dionisio (Ath. VI 260) e il secondo annoverava fra le torture leggere e studiare le tragedie di Dionisio (Ath. XI 482; fr. 16,1).
Or dunque Dionisio nel 386-385, libero da impegni bellici con i Cartaginesi, si dice che con grande determinazione si applicasse a comporre versi, a leggerli e a chiederne un giudizio agli ospiti, che numerosi e dotti nel mestiere delle lettere, accoglieva in veste di maestri e di critici alla sua mensa, volendo in questo gareggiare in ospitalità con i  grandi Dinomenidi, Gelone e Ierone.
Partecipava in quel tempo ai banchetti del tiranno, accolto nella cerchia degli amici e con le funzioni sopra ricordate, anche Filosseno di Citèra, apprezzato compositore di ditirambi (dithyrambopoiós), già schiavo ateniese, quando Nicia conquistò nel 424 Citèra, e forse ad Atene educato, che all’epoca, a stare a Marmor Parium 69 e a Diodoro XIV 46, 6, doveva avere circa cinquanta anni. Nel corso del banchetto, racconta sempre l’argirense (XV 6,2), Dionisio, dopo avere recitato alcuni versi, in verità maldestri, chiese a Filòsseno che cosa ne pensasse. Il ditirambografo, persona schietta, espresse un giudizio molto libero, ma non del tutto lusinghiero e Dioniso risentito lo accusò di averlo denigrato per invidia e senza indugio lo fece condurre dalle guardie alle latomie.
Il giorno dopo, un po’ per il rimorso, un po’ perché pregato dagli amici, lo fece liberare, si riconciliò con lui e lo invitò di nuovo a banchetto. Dionisio, però, non poteva fare a meno di recitare i versi di fresca composizione e così fece nel bel mezzo della bevuta.  Alla fine chiese a Filòsseno il solito parere.  Il poeta non proferì parola e con grande senso dell’ironia chiamò le guardie e disse loro di ricondurlo alle latomie. Dionisio, benché dicano i maligni  non fosse molto incline al riso, fu colpito dalla trovata spiritosa e scoppiò a ridere, senza prendere provvedimenti per la franchezza della non-risposta, critica, ma attenuata dallo scherzo.
Agli amici che lo scongiuravano di attenuare la durezza dei giudizi  e di far contento qualche volta il tiranno, il poeta fece una strana promessa: avrebbe continuato a dire la verità, senza però recare dispiacere al tiranno.
Capitò un giorno che Dionisio recitasse alcuni suoi versi che contenevano vicende  commoventi (échontas eleeinà páthē) e che riteneva di buona fattura e chiese naturalmente a Filòsseno che cosa ne pensasse di questa nuova fatica letteraria (Poiémata). Ed egli rispose semplicemente «Pietosi» (oiktrá), riuscendo a mantenere la promessa. Infatti, sebbene a prima vista la risposta potesse sembrare stroncatoria, conteneva un margine di ambiguità, potendo essere intesa in duplice senso. Come avvenne. Dionisio, convinto delle sue qualità poetiche, intese l’aggettivo  nel senso di «eleeinà kài sympathéias plērē», cioè "commoventi e pieni di sentimento", come riescono a fare i buoni poeti, e quindi lo considerò un elogio. E gli concediamo che, etimologia alla mano, non aveva tutti i torti ad autoassolversi. Non per niente, una cinquantina d’anni dopo, Aristotele nella Poetica (14,3,15) usa oiktrós come sinonimo di eleeinós "miserevole, compassionevole, pietoso" e  considera l’éleos (6,2), la pietà, come precipua emozione prodotta dalla tragedia. Gli astanti, però, terrorizzati,  afferrarono subito il senso della battuta e cioè che l’aggettivo indicava la fattura dei versi e non le emozioni: i versi  rappresentavano  un ennesimo insuccesso compositivo. Gli andò bene.
Non tanto in un’altra occasione narrata da Ateneo (I 6e -7a), ma non siamo obbligati a credere alle fonti, che si ripetono e fanno un po’ di confusione. Si tratta, però, di un episodio da rotocalco e quindi lo raccontiamo. Venne sorpreso il nostro attempato Filòsseno mentre era impegnato  a sedurre Galatea, l’amante del tiranno, e fu gettato ovviamente nelle latomie. Gli disse ancora una volta bene e comunque meglio di Antifonte (l’oratore, il poeta o un terzo sconosciuto?), che, a dire di Aristotele, trovandosi a Siracusa in qualità di ambasciatore, sarebbe stato ucciso a bastonate per ordine di Dionisio (Rhet.II, 6 1385 a, 10-15), perché, rispondendo ad una domanda   dello stesso, aveva affermato che il bronzo migliore era quello usato dagli Ateniesi per costruire le statue di Armodio e Aristogitone, gli uccisori di Ipparco (Plu. Mor. 833 b 5).
Fra l’altro in questa occasione Filòsseno si sarebbe presa una bella rivincita su Dionisio, perché durante la detenzione avrebbe composto il suo ditirambo più famoso Il Ciclope, modellato sulla sua storia personale. In esso, nei tratti del Ciclope, un Polifemo nuova maniera,  era rappresentato Dionisio,  Galatea era rappresentata come flautista  e Filòsseno vestiva i panni di Odìsseo. L’innovazione ebbe fortuna, perché Ermesianatte nella Leonzio e soprattutto il nostro Teocrito nell’idillio XI (Schol. in Theocr. XI, 1-3) canteranno il nuovo Polifemo, musico, come Dionisio,  e innamorato infelice e goffo, ridicolo e patetico, ma in fondo quasi commovente. E non è cosa da poco.
Il fatto è che Il Ciclope fu rappresentato verosimilmente ad Atene nel 389, perché Aristofane lo cita nel Pluto che è del 388. Così la cronologia si sconnette e tutti i fatti che ho raccontato sembrano galleggiare in un’aneddotica atemporale, tra verità e invenzione, dove tutto si concilia, perché appunto è senza tempo e non deve rispondere all’imperativo della veridicità. Ma, in fondo, le storie ci confermano che tutto il mondo è ed è stato paese. Ai lettori, pertanto, il ruolo di Filòsseno.


                                                                                 Sebastiano Amato  
                                                                               Presidente della Società Siracusana di Storia Patria

 
 

(scarica PDF)

 
 

Indietro

 
 
Torna ai contenuti | Torna al menu